Archivio mensile:marzo 2020

L’uguaglianza nella differenza per la comunione

Una grammatica delle relazioni umane secondo Gen 2
Le diversità spaventano perché destabilizzano la nostra comprensione del mondo. Il diverso eccede gli schemi nei quali abbiamo catalogato tutte le nostre esperienze e ci costringe a rimettere profondamente in discussione il nostro modo di approcciare la vita. Il diverso, in fondo, all’inizio è sempre una minaccia, perché, per il semplice fatto di esistere di fronte a noi, mette in crisi quello che siamo, quello che pensiamo, quello che crediamo. È comprensibile, allora, che di fronte alle molteplici diversità di questo mondo globalizzato le due principali risposte siano, da un lato, il rifiuto di qualsiasi diversità in nome dell’affermazione della propria identità e, dall’altro lato, l’omologazione delle diversità in nome di un’uguaglianza teorica. In entrambi i casi, però, l’operazione è la medesima: l’eliminazione delle diversità. Sia chi dice: “Noi abbiamo la nostra identità, quindi i diversi devono stare a casa loro”; sia chi dice: “Siamo tutti uguali, le differenze sono solo delle convenzioni”; stanno eliminando entrambi le diversità perché in realtà ne hanno paura e non sanno come approcciarle.
Come stare di fronte alle diversità? Come includerle nella nostra vita non come minaccia, bensì come opportunità? Siamo tutti uguali o siamo tutti diversi?
Il libro della Genesi, al capitolo 2, illumina la questione e ci aiuta a dare una risposta non solo teorica, ma esistenziale, una risposta che corrisponda alla verità della nostra umanità. In un certo senso Genesi delinea una grammatica essenziale delle relazioni umane che articola uguaglianza e differenza.

L’uguaglianza
La prima regola è questa: tutti gli uomini sono creati uguali di fronte a Dio.
Il Signore Dio plasma l’uomo dalla polvere del suolo alitando in lui uno spirito di vita, lo colloca nel giardino di Eden e pone al suo fianco ogni sorta di bestie selvatiche e tutti gli uccelli del cielo, perché possa trovare in loro un aiuto che gli corrisponda. Tuttavia questo non basta. Adamo non trova nessun essere vivente che gli sia simile e questo lo fa sentire solo. «Allora il Signore Dio fece scendere un torpore sull’uomo, che si addormentò; gli tolse una delle costole e rinchiuse la carne al suo posto. Il Signore Dio plasmò con la costola, che aveva tolta all’uomo, una donna e la condusse all’uomo. Allora l’uomo disse:
“Questa volta essa
è carne dalla mia carne
e osso dalle mie ossa.
La si chiamerà donna
perché dall’uomo è stata tolta”».
(Gen 2, 21-23)
Solo la donna, tra tutti gli altri esseri viventi, corrisponde all’uomo perché sostanzialmente è uguale a lui. La costola da cui è tratta Eva rappresenta la vita e dice e che la donna condivide con l’uomo la “materia prima” dell’esistenza stessa: è “ossa delle sue ossa, carne della sua carne”. L’uomo non può considerarsi completo senza la donna e la donna non può considerarsi completa prima di ricongiungersi al fianco dell’uomo. Essi sono stati creati da Dio e di fronte al loro creatore sono sostanzialmente uguali. Insomma, per la Bibbia tutti gli Adamo e tutte le Eva di sempre sono uguali di fronte al Signore Dio, quindi quando guardiamo un uomo, chiunque esso sia, dobbiamo vedere innanzitutto uno che è stato creato umano come me. Questa è la prima regola della grammatica delle relazioni secondo la Scrittura.

Nella differenza
La seconda regola dice così: l’uguaglianza di tutti gli uomini può ospitare le differenze tra di loro.
In Gen 1, 27 leggiamo: «Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò». Quando Dio crea l’uomo, li crea maschio e femmina; sono due e diversi, ma sostanzialmente sono uguali, condividono la medesima umanità di fronte a Dio e la medesima condizione di creaturalità. Proprio sulla base di questa uguaglianza Dio crea la diversità fondamentale, quella del maschile e del femminile, per la quale Adamo è per Eva l’assolutamente altro e viceversa. A partire da questa diversità originaria, l’umanità ha potuto ospitare nel tempo una miriade di altre diversità, come il colore della pelle, le tradizioni culturali, le espressioni artistiche di qualsiasi tipologia e genere, tutte rese possibili dall’uguaglianza di fondo degli uomini rispetto al loro unico Creatore. Le diversità non contraddicono l’uguaglianza originaria tra tutti gli uomini, ma ne sono in un certo senso l’espressione piena. «Dio creò l’uomo a sua immagine; maschio e femmina li creò»: Dio ci crea tutti uguali, perciò capaci di ospitare una miriade di diversità che insieme ricompongono il volto unico dell’umanità e – insieme – tratteggiano la pienezza del volto di Colui che l’ha creata. Insomma, per la Bibbia l’uguaglianza di tutti gli Adamo e di tutte le Eva di sempre è arricchita da una miriade di diversità al suo interno, quindi quando guardiamo un uomo, chiunque esso sia, dobbiamo vedere che ciò che lo rende diverso da me in realtà non lo distanzia da me, ma lo rende ancora di più come me, diverso come me. Questa è la seconda regola della grammatica delle relazioni secondo la Scrittura.

Per la comunione
La terza regola, infine, afferma: le differenze tra gli uomini rese possibili dalla loro uguaglianza sostanziale sono finalizzate alla comunione.
Così continua il brano di Gen 2: «Per questo l’uomo abbandonerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una sola carne. Ora tutti e due erano nudi, l’uomo e sua moglie, ma non ne provavano vergogna» (Gen 2, 24). Adamo ed Eva, ontologicamente uguali di fronte a Dio, dopo aver riconosciuto e valorizzato le diversità reciproche, ne fanno il punto di incontro e la possibilità di comunione tra di loro. Uomo e donna si uniscono e diventano una carne sola proprio perché sono diversi. La comunione, che costituisce il culmine della creazione, è resa possibile dalle diversità. Esse, per la Bibbia, non sono innanzitutto un terreno di scontro e di divisione, ma di incontro e di comunione. La diversità diventa feconda e genera nuova vita, in qualche modo permette di portare avanti la Creazione e di compiere il disegno di Dio. Insomma, per la Bibbia le diversità tra tutti gli Adamo e tutte le Eva di sempre sono solo un’occasione di comunione, quindi quando guardiamo un uomo, chiunque esso sia, dobbiamo vedere che ciò che lo rende diverso da me è in realtà il terreno su cui possiamo incontrarlo e l’occasione di generare qualcosa di molto promettente per entrambi e per l’umanità intera. Questa è la terza regola della grammatica delle relazioni secondo la Scrittura.

Se queste sono le regole fondamentali della grammatica umana secondo la Bibbia, sta a ciascuno di noi usarle per comporre la poesia di una vita concreta che, nell’incontro con uomini e donne diversi da noi per mille motivi, sia una vita pienamente umana. Uguali nella differenza per la comunione: sono regole semplici, ma costituiscono il minimo sindacabile per funzionare bene come persone. Per meno di questo non possiamo dire di vivere una vita che sia all’altezza della nostra altissima dignità.
Don Alberto

HANNO LASCIATO UNA TRACCIA – Mario Giuseppe Restivo

Mario Giuseppe Restivo nasce a Palermo il 24 gennaio 1963. Primo di quattro figli, di genitori originari di Castelbuono (PA), una cittadina di circa 12.000 abitanti, situata nel cuore delle Madonie, a tre anni circa dalla sua nascita, insieme alla famiglia, si trasferisce a Castelbuono. Qui avviene il suo primo contatto con la scuola: due anni di scuola materna e quattro di elementari; poi nuovamente a Palermo. Sin dai primi tempi, Mario manifesta un notevole impegno per lo studio e per le positive relazioni con i coetanei e con gli adulti, tanto da essere benvoluto e stimato da tutti. La sua maturazione è precoce. A 9 anni compone la sua prima poesia che dedica alla sua mamma. Il ragazzo però non si ferma qui, ma continua a comporre altre poesie e così nel 1974 il padre decide di dare alle stampe la prima raccolta che è intitolata: “La mia aurora”. A questa fa seguito un’altra raccolta, pubblicata l’anno dopo con il titolo: “In cammino”. Le due opere hanno molto successo; ne parlano molti giornali e riviste specializzate. Anche la RAI-TV dà risalto al volumetto “In cammino”, presentandolo il 5 Aprile 1976 nella rubrica televisiva “Tuttolibri” con un giudizio molto lusinghiero. Nel 1975, Mario, alunno di prima media della Scuola Statale “D. Scinà” di Palermo, ha assegnata la borsa di Studio “Federico Motta Editore” di Milano. A 15 anni, sceglie come modello di vita la figura di S. Francesco e ne incarna lo spirito di povertà. Ama tanto la natura, a contatto della quale riesce a sentirsi in contemplazione con Dio. Lo scautismo cattolico diviene il suo più forte ideale nel quale poter esprimere il suo impegno di apostolato. Fa parte del Gruppo AGESCI Palermo 3° e partecipa a campi di specializzazione a Spettine e a Marineo. Si rende disponibile per dare una mano all’apertura di un nuovo gruppo scout in una zona periferica di Palermo, presso la Parrocchia S. Raffaele Arcangelo (novembre 1978). Grazie alla maturità di Mario, il parroco insiste per affidargli l’incarico di Capo Reparto, benché sia ancora giovane. Segue con responsabilità e competenza i ragazzi del reparto e partecipa con vivo interesse alle attività di formazione capi. Partecipa alla Route regionale dei noviziati e subito dopo parte, con altri due scout coetanei, per Taizé al fine di partecipare ad una settimana di spiritualità. Nel lasciare la Base scout della Massariotta, al termine della route, saluta i capi promettendo che avrebbe dato una mano ai campi di specializzazione e allo sviluppo della Base, alla quale era molto legato. In cammino verso Taizé, il 19 Agosto 1982 nei pressi di Chambery (Francia) in seguito ad un incidente la sua giovane vita viene stroncata. Il suo ricordo è rimasto vivo nel cuore di tanti giovani, ma soprattutto nel cuore dei giovani scouts (non solo del suo Gruppo), che egli amò intensamente e di cui fu maestro, modello e guida.

Generazione X – La partecipazione fa la forza

Buongiorno cari amici ed amiche e bentornati ancora una volta sulle pagine di Generazione X.
L’articolo di oggi non inizia nei soliti luoghi dello scoutismo, nella nostra sede o in un qualche bosco più o meno remoto, ma nella centralissima piazza San Giovanni di Busto Arsizio, dove il 9 dicembre 2019 si radunava per la prima volta nella provincia di Varese il gruppo delle sardine. In quella piazza, oltre a me, non ho potuto fare a meno di notare la presenza di molti altri scout del mio gruppo, tutti rigorosamente in abiti civili e quasi tutti pervenuti in quella piazza in maniera indipendente, senza mettersi d’accordo fra loro, spinti lì dal mero desiderio di partecipazione democratica. Molti di loro hanno anche abbandonato la manifestazione leggermente in anticipo, per non tardare all’incontro di zona, programmato da tempo per quella sera.
Questo desiderio di partecipazione è chiaramente sentito anche da parte dei ragazzi, alcuni dei quali hanno saltato, ormai l’anno scorso, una o due attività per partecipare alle diverse marce per i diritti degli omosessuali o contro i cambiamenti climatici che si sono tenute in alcune città, soprattutto Milano, nel corso del finesettimana. Se per l’incontro delle sardine l’associazione è rimasta in silenzio, per questo tipo di manifestazioni, più politicamente schierate, sono stati fatti girare comunicati per cui si sottolineava che, chiunque avesse partecipato in uniforme lo avrebbe fatto a titolo puramente personale.
Se dovessi davvero pensare, come questo Thinking Day ci chiede, “all’uguaglianza ed all’inclusione nel rispetto della diversità” la conclusione alla quale arriverei è che questi ideali sono vivi e ben espressi dai capi, e di conseguenza dai ragazzi, che agli scout ci vengono e che davvero credono nei suoi insegnamenti, ma che questi stessi ideali sono presi solo marginalmente in considerazione da quell’associazione che si fa carico di diffondere il metodo scout.
È davvero possibile promuovere un ambiente di vera uguaglianza e vera inclusione quando membri di religioni diverse possono trovarsi scoraggiati ad entrare nell’AGESCI? È davvero possibile promuovere vera uguaglianza e vera inclusione quando gli adolescenti moderni esplorano le loro identità, le loro inclinazioni e talvolta addirittura la loro sessualità in un modo che difficilmente può essere affrontato dalla mera diarchia? (che fra l’altro spesso, per mancanza di capi, non si riesce nemmeno a garantire). Risulta insomma davvero possibile parlare di rispetto della diversità quando il colpevole silenzio dell’associazione centrale lascia intuire che la diversità vada affrontata come se non ci fosse? Che ogni tentativo attivo di partecipare alla vita della società civile, che spesso mette la diversità e le disuguaglianze al centro, va affrontata individualmente?
Quelle di cui qui parlo non sono tematiche nuove anzi, oserei dire che sono questioni ormai stantie, sollevate da moltissime persone, ma la cui soluzione è stata fin’ora affidata alle Co. Ca o alle singole Staff.
Ma voglio davvero una condotta univoca che arrivi dall’alto? Forse no, non voglio una linea generale obbligatoria da seguire ma vorrei vedere un polso, un fremito, un riconoscimento di questi ideali e magari un risveglio da parte dell’associazione nazionale su come queste situazioni andrebbero affrontate. Poco importa se la problematica è l’omofobia, il razzismo o un qualunque altro caso di esclusione del diverso, la mia esperienza personale mi insegna che un qualunque scout saprebbe affrontare queste sfide nel modo più umano e coscienzioso possibile, ma trovo scoraggiante che tutto questo idealismo venga affidato al singolo individuo quando alle spalle abbiamo un’associazione grande ed articolata. Non serve essere partitici e nemmeno di parte in generale, ma abbiamo fatto tutti una scelta politica legata a determinati ideali, che mettono al centro non l’esclusione del prossimo ma l’inclusione. Perché allora ogni volta che questi ideali vengono professati da qualche elemento della società civile, ci viene consigliato di aderire esclusivamente come singoli individui?
Siamo in uno dei tanti movimenti che si adoperano per quello che credo sia il bene del paese, a che pro nasconderci dietro ad un dito, e dire che gli ideali che l’associazione professa e che attivamente insegna a milioni di ragazzi sono semplice responsabilità del singolo?
Questo è un comportamento che si avvicina, purtroppo (e sicuramente in maniera involontaria) a quello di alcune frange dell’estrema destra la cui supposta neutralità serve ad allontanare chi ne propaganda i terribili ideali di odio da chi, seguendo quegli stessi ideali, porta morte e distruzione. Io per questa associazione voglio l’opposto: voglio che le tante cose buone che l’associazionismo scout porta nel mondo siano viste non come l’idea di singoli individui illuminati, ma come l’espressione di un filo che collega fra loro una schiera di individui illuminati, ciascuno dotato della propria individualità, ma tutti guidati da un imprescindibile ideale soggiacente: quello dello scautismo, dei dieci punti della legge.
Tricheco Birbante

Una sede maggiorenne

16 Bentrovati care lettrici e lettori di Tuttoscout (abituali, sporadici o occasionali), la riconoscete quella in fotografia? Certo: è la nostra sede! L’ex-Macello Civico di Busto Arsizio. Era il 2002 quando ci entrammo per la prima volta alla ricerca di una sistemazione alternativa alla vecchia sede del Bustotre. Sì, perché il nostro Gruppo prima aveva un’altra sede o, meglio, due: una per lupetti, coccinelle e castorini in via Magenta (all’angolo con via Espinasse dove oggi è rimasto solo un grande albero che prima cresceva nel suo cortile) e una per i reparti in via Pace a fianco a Villa Comerio.
Mi raccontava un capo che, anni prima, si erano trovati le ruspe davanti alla sede già pronti per raderla al suolo. Tutti i fratellini e sorelline si presero per mano e formarono un cerchio attorno alla sede per proteggerla. Il Gruppo ottenne un po’ di tempo per trovare una sede alternativa e la risposta fu trovata poco più in là.
L’ex-Macello era abbandonato da anni, in rovina, covo di erbacce e, probabilmente, malviventi. Insomma, una cicatrice enorme in un quartiere fatto di cascine abbandonate e fabbriche dismesse. Dentro non c’era nulla: macerie, muri che mancavano, non c’era la corrente… Molto probabilmente se avessero mostrato le foto di come è oggi la sede a quei capi, quei genitori e amici che iniziarono a rimboccarsi le maniche davanti a quel “macello” si sarebbero scoraggiati pensando alla mole di lavoro da fare. Eppure, sono passati 18 anni, la nostra sede è diventata maggiorenne! Ci sono voluti tempo, fatica e denaro per realizzarla prima con grandi lavori, poi con migliorie continue, manutenzioni e pulizie, ma i segni del tempo non demordono. La nostra sede è un bene immenso che ogni scout d’Italia (ma non solo, penso) ci invidia: è uno spazio di libertà, di gioco, di riunione che ci offre possibilità precluse alla maggior parte dei gruppi scout (tant’è che abbiamo iniziato timidamente a condividerle mettendole a disposizione per pernotti e uscite). Per questo è doveroso mantenerla in buono stato fintanto che possiamo restarci: pulire i bagni, sistemare i muri e l’intonaco, curare il verde… È una ricchezza che ci viene affidata (e affittata) dal Comune verso la quale abbiamo una responsabilità che va oltre gli impegni contrattuali perché deriva dal nostro stile scout e quindi dal nostro avere cura del Creato e di ciò che abitiamo (per lasciarlo “migliore di come lo abbiamo trovato”).
17Questa storia mi ricorda un po’ quella dell’Arsenale della Pace del SERMIG, per chi ci è stato e ha visto le foto della “trasformazione” da arsenale militare in rovina a casa e fabbrica di buone azioni.
Ma in questa sede ormai maggiorenne abitiamo noi, un Gruppo ormai quarant’enne che si trova a fare i conti con una “crisi di mezza età”. A quarant’anni si è ormai adulti e bisogna prendersi cura di sé in modo diverso: la vita ha già inferto delle cicatrici e dei lutti che vanno elaborati; si sente il peso delle scelte del passato e fermarsi per capire dove ci hanno portato. Chi ci hanno reso.
A confronto, la nostra sede è da poco diventata matura per aprirsi anche agli altri, agli ospiti, ad abbellire un quartiere che negli ultimi anni si è ricolorato e ripopolato. Sono sicuro che quest’ultima cosa è successa anche per merito nostro e della nostra sede sottratta al degrado. Per questo dobbiamo continuare a prendercene cura come di noi stessi.
Geco Coinvolgente

Anche ricordarsi è avere cura

Santino Brustia 1949Scorrono ad uno ad uno i nomi degli amici nella mente, dei compagni di strada di un tempo, 70 anni fa, in cui il roverismo lombardo compiva una delle più ambiziose imprese scout. Santino Brustia sta sfogliando il libro che racconta la storia della Freccia Rossa della Bontà, il Raid Milano-Oslo con cui una trentina di Rover dell’ASCI portarono il messaggio di pace dei bimbi mutilati in giro per mezza Europa. Santino ricorda i nomi e i volti dei vivi e dei morti; i suoi occhi si bagnano di lacrime sia sulle brutte notizie di chi non c’è più che davanti alla speranza di poter rincontrare i suoi amici.
In un attimo capita una foto di Baden, don Andrea Ghetti, assistente ecclesiastico del Clan La Rocchetta (ASCI Milano 1) e la voce si spezza: “Lui li prendeva tutti con sé, neri e rossi”.
Infatti, il padre di Santino, un ferroviere che negli anni della guerra aderì alla Repubblica di Salò, volle che suo figlio partecipasse a tutti i costi a quella spedizione di riappacificazione. A fianco a lui ci sarebbe stato anche Duccio, scacciato da scuola durante il Ventennio perché figlio di un ebreo.
Alle sue spalle è appesa una foto di lui in uniforme davanti al Guzzino da 65cc con cui compì il viaggio: in testa una giovane chioma e sul telaio i gagliardetti delle città attraversate.
“Gli altri erano figli di professionisti, gente con l’aziendina, che non sapevano neanche dove avevano le calze – ironizza Santino ricordando alcuni di quelli che avevano fatto meno fatica a pagare la quota di partecipazione alla spedizione – e io ero il più veloce a montare la tenda.”

Santino BrustiaSono passati più di sei anni da quando il Clan Zenit scrisse il libro di cui sopra nel corso del Capitolo Nazionale del 2014. Da allora il lavoro di “ricordo” e salvaguardia di quella storia non si è fermato: tante serate di presentazione, una seconda edizione… e poco fa ancora un incontro con Santino che è stato “ritrovato” solo quest’anno. Perché? Come mai questo lavoro, nato tanti anni fa e che aveva più che degnamente raggiunto il suo obiettivo, viene ancora portato avanti?
Perché quando si è artefici di qualcosa ne si è anche responsabili. Sia un’amicizia, un figlio, un oggetto, un pensiero o, nel nostro caso, un ricordo. Siamo responsabili dei ricordi che teniamo in vita, delle storie che albergano nel nostro cuore. Anche i ricordi di Santino ora fanno parte di questo impegno di cui siamo portatori e di cui dobbiamo avere cura.
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