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L’uguaglianza nella differenza per la comunione

Una grammatica delle relazioni umane secondo Gen 2
Le diversità spaventano perché destabilizzano la nostra comprensione del mondo. Il diverso eccede gli schemi nei quali abbiamo catalogato tutte le nostre esperienze e ci costringe a rimettere profondamente in discussione il nostro modo di approcciare la vita. Il diverso, in fondo, all’inizio è sempre una minaccia, perché, per il semplice fatto di esistere di fronte a noi, mette in crisi quello che siamo, quello che pensiamo, quello che crediamo. È comprensibile, allora, che di fronte alle molteplici diversità di questo mondo globalizzato le due principali risposte siano, da un lato, il rifiuto di qualsiasi diversità in nome dell’affermazione della propria identità e, dall’altro lato, l’omologazione delle diversità in nome di un’uguaglianza teorica. In entrambi i casi, però, l’operazione è la medesima: l’eliminazione delle diversità. Sia chi dice: “Noi abbiamo la nostra identità, quindi i diversi devono stare a casa loro”; sia chi dice: “Siamo tutti uguali, le differenze sono solo delle convenzioni”; stanno eliminando entrambi le diversità perché in realtà ne hanno paura e non sanno come approcciarle.
Come stare di fronte alle diversità? Come includerle nella nostra vita non come minaccia, bensì come opportunità? Siamo tutti uguali o siamo tutti diversi?
Il libro della Genesi, al capitolo 2, illumina la questione e ci aiuta a dare una risposta non solo teorica, ma esistenziale, una risposta che corrisponda alla verità della nostra umanità. In un certo senso Genesi delinea una grammatica essenziale delle relazioni umane che articola uguaglianza e differenza.

L’uguaglianza
La prima regola è questa: tutti gli uomini sono creati uguali di fronte a Dio.
Il Signore Dio plasma l’uomo dalla polvere del suolo alitando in lui uno spirito di vita, lo colloca nel giardino di Eden e pone al suo fianco ogni sorta di bestie selvatiche e tutti gli uccelli del cielo, perché possa trovare in loro un aiuto che gli corrisponda. Tuttavia questo non basta. Adamo non trova nessun essere vivente che gli sia simile e questo lo fa sentire solo. «Allora il Signore Dio fece scendere un torpore sull’uomo, che si addormentò; gli tolse una delle costole e rinchiuse la carne al suo posto. Il Signore Dio plasmò con la costola, che aveva tolta all’uomo, una donna e la condusse all’uomo. Allora l’uomo disse:
“Questa volta essa
è carne dalla mia carne
e osso dalle mie ossa.
La si chiamerà donna
perché dall’uomo è stata tolta”».
(Gen 2, 21-23)
Solo la donna, tra tutti gli altri esseri viventi, corrisponde all’uomo perché sostanzialmente è uguale a lui. La costola da cui è tratta Eva rappresenta la vita e dice e che la donna condivide con l’uomo la “materia prima” dell’esistenza stessa: è “ossa delle sue ossa, carne della sua carne”. L’uomo non può considerarsi completo senza la donna e la donna non può considerarsi completa prima di ricongiungersi al fianco dell’uomo. Essi sono stati creati da Dio e di fronte al loro creatore sono sostanzialmente uguali. Insomma, per la Bibbia tutti gli Adamo e tutte le Eva di sempre sono uguali di fronte al Signore Dio, quindi quando guardiamo un uomo, chiunque esso sia, dobbiamo vedere innanzitutto uno che è stato creato umano come me. Questa è la prima regola della grammatica delle relazioni secondo la Scrittura.

Nella differenza
La seconda regola dice così: l’uguaglianza di tutti gli uomini può ospitare le differenze tra di loro.
In Gen 1, 27 leggiamo: «Dio creò l’uomo a sua immagine; a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò». Quando Dio crea l’uomo, li crea maschio e femmina; sono due e diversi, ma sostanzialmente sono uguali, condividono la medesima umanità di fronte a Dio e la medesima condizione di creaturalità. Proprio sulla base di questa uguaglianza Dio crea la diversità fondamentale, quella del maschile e del femminile, per la quale Adamo è per Eva l’assolutamente altro e viceversa. A partire da questa diversità originaria, l’umanità ha potuto ospitare nel tempo una miriade di altre diversità, come il colore della pelle, le tradizioni culturali, le espressioni artistiche di qualsiasi tipologia e genere, tutte rese possibili dall’uguaglianza di fondo degli uomini rispetto al loro unico Creatore. Le diversità non contraddicono l’uguaglianza originaria tra tutti gli uomini, ma ne sono in un certo senso l’espressione piena. «Dio creò l’uomo a sua immagine; maschio e femmina li creò»: Dio ci crea tutti uguali, perciò capaci di ospitare una miriade di diversità che insieme ricompongono il volto unico dell’umanità e – insieme – tratteggiano la pienezza del volto di Colui che l’ha creata. Insomma, per la Bibbia l’uguaglianza di tutti gli Adamo e di tutte le Eva di sempre è arricchita da una miriade di diversità al suo interno, quindi quando guardiamo un uomo, chiunque esso sia, dobbiamo vedere che ciò che lo rende diverso da me in realtà non lo distanzia da me, ma lo rende ancora di più come me, diverso come me. Questa è la seconda regola della grammatica delle relazioni secondo la Scrittura.

Per la comunione
La terza regola, infine, afferma: le differenze tra gli uomini rese possibili dalla loro uguaglianza sostanziale sono finalizzate alla comunione.
Così continua il brano di Gen 2: «Per questo l’uomo abbandonerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie e i due saranno una sola carne. Ora tutti e due erano nudi, l’uomo e sua moglie, ma non ne provavano vergogna» (Gen 2, 24). Adamo ed Eva, ontologicamente uguali di fronte a Dio, dopo aver riconosciuto e valorizzato le diversità reciproche, ne fanno il punto di incontro e la possibilità di comunione tra di loro. Uomo e donna si uniscono e diventano una carne sola proprio perché sono diversi. La comunione, che costituisce il culmine della creazione, è resa possibile dalle diversità. Esse, per la Bibbia, non sono innanzitutto un terreno di scontro e di divisione, ma di incontro e di comunione. La diversità diventa feconda e genera nuova vita, in qualche modo permette di portare avanti la Creazione e di compiere il disegno di Dio. Insomma, per la Bibbia le diversità tra tutti gli Adamo e tutte le Eva di sempre sono solo un’occasione di comunione, quindi quando guardiamo un uomo, chiunque esso sia, dobbiamo vedere che ciò che lo rende diverso da me è in realtà il terreno su cui possiamo incontrarlo e l’occasione di generare qualcosa di molto promettente per entrambi e per l’umanità intera. Questa è la terza regola della grammatica delle relazioni secondo la Scrittura.

Se queste sono le regole fondamentali della grammatica umana secondo la Bibbia, sta a ciascuno di noi usarle per comporre la poesia di una vita concreta che, nell’incontro con uomini e donne diversi da noi per mille motivi, sia una vita pienamente umana. Uguali nella differenza per la comunione: sono regole semplici, ma costituiscono il minimo sindacabile per funzionare bene come persone. Per meno di questo non possiamo dire di vivere una vita che sia all’altezza della nostra altissima dignità.
Don Alberto

Attendere è mettersi in viaggio

Che cosa significa attendere il Natale?
Ci sono due modi per attendere il Natale. O aspettare che il 25 dicembre arrivi da noi senza doverci scomodare più di tanto per accoglierlo, oppure metterci in viaggio per andargli incontro facendoci strada in mezzo a tutti i nostri impegni e a tutte le nostre preoccupazioni. A livello di calendario non cambia nulla: il giorno di Natale arriva sempre e comunque, i regali compaiono sotto l’albero e tutti sono più buoni (anche solo per finta). A livello di cuore, invece, è tutta un’altra storia.
C’è chi aspetta che il Natale gli piombi addosso tutto d’un tratto con le sue luci colorate e il suo buonismo sdolcinato e chi, invece, giorno dopo giorno, attraversa l’Avvento per raggiungere la mezzanotte della festa tanto attesa. Il primo non si accorge nemmeno di che cosa stia capitando, perché continua a condurre la sua vita come se nulla fosse: non succede niente, non cambia niente, rimane fermo. Il secondo attende, quindi si mette in moto sul serio, perché sente che nel Natale è nascosta una promessa di bene per la sua vita e desidera raggiungerla: per questo si mette in viaggio. Attendere, in fondo, significa mettersi in viaggio: partire dalle proprie certezze per andare alla ricerca di una novità. E il Natale è per definizione una novità, perché si tratta di una nascita, della venuta al mondo di qualcosa di nuovo, sebbene Gesù sia sempre lo stesso.
Attendere il Natale significa mettersi in viaggio per il Natale. Sì, ma questo viaggio dove si svolge? In che modo coinvolge la nostra vita? Cosa succede quando ci mettiamo veramente ad attendere il Natale? Almeno tre cose, direi.
Attendere il Natale significa innanzitutto mettersi in viaggio dentro noi stessi. L’attesa del Dio fatto uomo ci chiama ad entrare nella nostra umanità e a prendere coscienza delle attese più profonde riposte nel nostro cuore. A Natale possiamo sentire più intensamente che desideriamo essere felici e vivere in pace. A Natale possiamo renderci conto di che cosa conti davvero nella nostra vita. A Natale possiamo scoprire che noi contiamo davvero. Sì, perché la nascita di Dio va incontro alla nostra umanità e la benedice: Gesù nasce perché Dio ci ama. C’è bisogno di metterci in viaggio dentro noi stessi, perché proprio al fondo della nostra vita risiede la gioia del dono del Natale; il nostro cuore, pur malmesso che sia, è pur sempre una mangiatoia adatta per accogliere il Salvatore.
Attendere il Natale, poi, significa mettersi in viaggio incontro agli altri. L’attesa di Gesù che si fa incontro all’umanità bisognosa ci chiama ad andare incontro al prossimo. A tutti, nessuno escluso, ma a partire da chi è più vicino. È più facile fare la carità ai lontani che non possiamo vedere piuttosto che ai vicini che, a forza di vederli di continuo, ci hanno persino scocciato. Gesù ha iniziato a cambiare la vita di quelli che gli stavano accanto: la mamma e il papà, poi i pastori che l’hanno visitato a Betlemme, i magi e poi quelli che l’hanno conosciuto di persona. Quanto amore si è raccolto intorno a quella culla! E quanto amore da quella culla è partito ed ha irradiato il mondo fino ad oggi. Tutto è iniziato con quel primo Natale, che prima ha messo in moto molte persone radunandole presso Gesù e poi le ha rimesse in moto perché andassero da altri a portare la gioia di quell’incontro straordinario con Dio. Attendere il Natale, dunque, significa partire dalla propria autosufficienza e andare incontro agli altri per condividere con loro il dono dell’amore di Dio.
Attendere il Natale significa infine mettersi in viaggio verso Dio. L’attesa di Dio che nasce in un bambino è l’occasione più propizia per incontrare Dio, perché in quel modo Dio si è reso avvicinabile da tutti. Tutti ci sentiamo a nostro agio di fronte ad un bambino piccolo; tutti rimaniamo affascinati dal mistero poderoso della vita che nasce e prende forma in un corpo piccolo, indifeso e bisognoso di aiuto. Ebbene, Dio è nato proprio così e per questo è alla portata di ciascuno. A Natale abbiamo tutti una possibilità in più di incontrare o di avvicinarci a Dio, perché lui si presenta a noi come un bambino. A Natale abbiamo l’occasione di considerare che la vita è più grande, più larga, più profonda e più bella di quanto ci appare alla superficie della nostra quotidianità. Se accettiamo di scrollarci di dosso la supponenza che talvolta prende noi adulti, allora abbiamo una possibilità concreta di fare esperienza del Salvatore. A Natale, infatti, siamo noi a doverci abbassare per incontrare Gesù bambino.
Chi quest’anno sta aspettando il Natale senza curarsi di fare niente forse sta facendo meno fatica, ma non sa che cosa si sta perdendo. Il Natale è sempre l’occasione buona per dare una svolta alla propria vita, perché chiede di mettersi in viaggio per raggiungere Gesù. Solo chi osa entrare dentro di sé, uscire incontro agli altri e stare alla presenza di Dio può sperare in un reale cambiamento. E solo il richiamo del Signore che viene nel mondo ha la forza per farci intraprendere e portare a termine questo grande viaggio.
Buon Natale, buon viaggio!

Don Alberto

A.E. – Buona strada

Masai bustotreQuante volte questo saluto mi è risuonato nelle orecchie in mezzo a voi… Ed ogni volta sentivo un gusto profetico in queste due parole…
Non profetico nel senso magico, come se fossero parole di un futuro incombente: profetico nel senso vero, quello biblico. Profetico nel senso che ci aiutano a leggere un di più nella realtà quotidiana, nel senso che ci aprono gli occhi al mistero di Dio che si fa presente nella nostra vita.
Dirci “buona strada” non significa semplicemente augurarci buone cose (lunga vita e prosperità, il tipico saluto vulcaniano, sarebbe più adatto in quel caso) ma anzitutto riconoscere che la vita è strada. Come dice san Paolo:
“perché non abbiamo quaggiù una città stabile, ma cerchiamo quella futura”
E allora nel dirvi “buona strada” vorrei dire a voi e a me:
- che bello esserci incontrati su questo cammino, che bello aver condiviso questo tratto di strada;
- grazie per quando ci siamo sostenuti a vicenda e per quando abbiamo faticato insieme;
- perdoniamoci per quando ci è sembrato che i passi degli uni intralciassero i passi degli altri;
- ma soprattutto ALZATE LO SGUARDO, lasciatevi affascinare dalla meta, perché il vostro andare sia pieno di gioia, di allegrezza, di misericordia e di cura.
Buona strada!

In cammino con voi, sulla stessa strada, solo dietro una curva…
Don Matteo

Qual’é per te la città dell’uomo?

Nella città infelice è sempre buio, non vedo niente, il volto delle persone che amo, gli amici, le stelle; nella città infelice in realtà c’è tanta luce, ma è come quando sei su un palco e ti sparano i fari negli occhi, sei accecato, potresti vedere ma i fari ti impediscono di guardare intorno.
Nella città felice le persone chiudono gli occhi, e chiedono a Gesù di essere la loro luce, di guadare la vita con il suo sguardo. E poi pensano a chi non può mai vedere perché è cieco, e gli tendono la mano per aiutarlo a camminare.

Nella città infelice non si dice niente, non si può parlare, non si può dire quello che si ha nel cuore, non si può chiedere quello che serve per vivere; tutta la città infelice è un’enorme discarica delle parole cattive, brutte, offensive, volgari, inutili.
Nella città felice la parola è per rispondere a Colui che ci chiama, a Chi si confida con noi, all’Amore che ci ha insegnato a parlare, per rispondere alle parole di Gesù. Gli abitanti della città felice pensano anche alle persone che non possono parlare, e cercano di comunicare con loro.

Nella città infelice non si sente niente, non si può ascoltare chi ti chiama, chi ti vuole bene, chi ti parla, c’è un baccano talmente confuso, c’è una musica a volume così alto che per parlare all’amico vicino devi gridare.
Nella città felice tutti ascoltano perché abitano nel silenzio dove parla lo Spirito di Dio, tutti sanno che per essere discepoli di Gesù e seguirlo bisogna ascoltare qualcuno che parla di Lui. Chi fa così si ricorda degli abitanti della città felice che non possono sentire, e prova a stare almeno vicino a loro.

Tu dove scegli di abitare, qual’é per te la città dell’uomo?

Un ringraziamento speciale a
S.E.R. m. M.E. D

don Claudio

Un appuntamento da non perdere

Dimitri era un brav’uomo, un onesto lavoratore e un buon padre di famiglia e una sera, mentre pregava, gli capitò di dire così: “Buon Dio, ti ringrazio di tutto ciò che mi hai donato, delle tante cose che mi rendono felice. Una sola cosa mi manca: vorrei incontrarti faccia a faccia.” Quella notte, in sogno, un angelo gli apparve e gli disse: “Dimitri, Dio ha ascoltato la tua preghiera e ti da appuntamento domani a mezzogiorno al crocevia di San Michele.”
All’alba Dimitri saltò giù dal letto: il crocevia di San Michele distava due ore di cammino dalla sua città ma non sarebbe arrivato in ritardo per nulla al mondo. Si vestì di fretta, salutò la sua famiglia e si mise in cammino. Dopo un po’ che camminava si trovò a passare vicino a un ometto che tirava un carro pieno di fieno. La scena gli parve insieme buffa e strana: “I carri si fanno tirare agli animali… e comunque quest’uomo non andrà molto lontano: il carro è troppo pesante…” Non aveva neanche finito di formulare questo pensiero che l’uomo che tirava il carro lo chiamò e cominciò a pregarlo: “Ti prego, buon’uomo, aiutami a tirare il mio carro. Non te lo chiederei se non fosse proprio necessario. Ho un appuntamento molto importante e non vorrei proprio perdermelo.” “Mi spiace – rispose Dimitri – ma anch’io ho un appuntamento molto importante e non arriverei tardi per nessuna ragione al mondo.” “Ma se mi dai una mano – replicò l’uomo supplicante – magari arriveremo tutti e due in tempo per i nostri appuntamenti.” Ma Dimitri già si stava allontanando con passo spedito nonostante l’uomo continuasse a chiamarlo e a pregarlo: non sarebbe arrivato tardi al suo appuntamento.
Arrivò al crocevia di San Michele con largo anticipo e si mise ad aspettare. Il sole arrivò nel punto più alto del cielo e poi cominciò a scendere. L’eccitazione si trasformò lentamente in cupa rassegnazione: chissà cosa si era immaginato… Verso il tramonto si decise a tornare a casa e, vedendo arrivare il carrettiere, si stupì della determinazione di quell’uomo e si sentì un po’ in colpa per non averlo aiutato: dopotutto aveva speso la sua giornata seduto a un crocevia… Quando lo incrociò sulla strada era deciso a non incrociare il suo sguardo ma… Rimase come fulminato: il volto dell’uomo era una maschera di fatica e di dolore.
Dimitri tornò a casa che era già buio: entrò in casa, salutò a malapena la sua famiglia, rifiutò di mangiare e salì in camera. Si mise in ginocchio vicino al letto e alzando gli occhi rossi per il piantò disse: “Non ho avuto neanche il coraggio di chiederti perdono.” La luce della candela illuminava appena il volto del carrettiere sulla croce.
Non si può scegliere bene se non si tengono gli occhi aperti per riconoscere la verità.
-Don Matteo

100 anni… tempo di resistere

A cent’anni verrebbe da dire che si è vecchi… ed è vero!
Che si è guadagnata la sapienza, la saggezza, la pazienza… e questo lo speriamo!
Che si sente la stanchezza, che si tende a rassegnarsi… e questo mai!

A cent’anni è tempo di RESISTERE… ma attenzione: resistere può significare due cose!

Si può resistere arroccandosi sulle proprie posizioni e tradizioni (…si è sempre fatto così…), si può resistere rifiutando il confronto e il dialogo (…tanto io resto della mia idea…), si può resistere coltivando il proprio orticello e dimenticandosi degli altri (…noi facciamo le nostre cose, gli altri facciano le loro…).

Oppure…

Si può resistere camminando sulla strada anche quando tutti si fermano, si può resistere sorridendo anche quando tutti si lamentano, si può resistere pensando agli altri anche quando tutti pensano a sé.
Si può resistere amando anche quando si è odiati, perdonando anche quando si viene feriti, offrendosi anche quando si è rifiutati. Come Gesù.

Don Matteo

“Se dunque il Figlio vi farà liberi, sarete liberi davvero”

Sebastiano non ci voleva credere ancora: quando la nonna gli aveva promesso una mancia (aveva detto ancora 50.000 lire, alcuni cambiamenti sono duri da metabolizzare…) per svuotare il sottotetto, aveva pensato che non ne valesse proprio la pena. Eppure ora, aveva l’impressione di aver trovato un tesoro!
Lo aveva sentito raccontare che la nonna aveva uno zio che faceva il prete, il prevosto (chissà poi cosa voleva dire “prevosto”…) a Corbetta, ma sembrava talmente una storia di altri tempi che mica ci aveva mai fatto caso. E ora si ritrovava seduto a gambe incrociate, in una soffitta polverosa, a frugare dentro il baule dei suoi ricordi. Tutto catalogato con la precisione metodica che solo gli uomini di altri tempi avevano. Soprattutto erano conservati con moltissima cura dei “Quaderni delle prediche”, suddivisi per tempi liturgici, ognuno scritto con un colore diverso, rigorosamente con pennino e inchiostro: viola, verde, nero, rosso, giallo scuro (mica si può scrivere in bianco.). Non c’erano date: Sebastiano aveva l’impressione che don Cesare avesse scritto quelle omelie una volta per tutte, ed ogni anno tirasse fuori il quaderno giusto al momento giusto, e tac, pronti via! Tanto lui non se ne sarebbe mica accorto da un anno a quell’altro che diceva le stesse cose, durante le prediche di solito si dorme! Quasi per scherzo, tira fuori il quaderno viola della Quaresima, e comincia a sfogliarlo: sorpresa! Pensava di trovare delle parole vecchie, noiose, polverose! Sì ok, erano scritte un po’ in modo antico (il Nostro Beatissimo Padre per parlare del Papa sembrava un tantino esagerato…), ma che idee geniali!
“Vorremmo fare in modo che i ragazzi possano crescere liberi, dando loro l’opportunità di scegliere bene e di scegliere il bene, prendendo sempre più la ferma decisione di seguire il Signore Gesù, fino alla piena realizzazione di sé, in una felicità che dura per sempre.”. Ma davvero un uomo dei primi anni del 1900 diceva una cosa così attuale?
“La Confessione diventa lo strumento più bello per riconoscersi ogni volta «liberi davvero». È diventata una «abitudine» per i nostri ragazzi?”. Eh, pensa che, come diceva la nonna, ai tempi ci andavano tutti a confessarsi, ti ci portavano la mamma e il papà! Sebastiano forse era andato a Natale, ma mica se lo ricordava bene: era andato alla vigilia, ma poi c’era troppa coda e si era stufato di aspettare… non basta l’intenzione, in questi casi?
“Il cammino quaresimale è fatto per chi è libero davvero. Solo chi sceglie e sceglie il bene può fare propri gli impegni di digiuno, preghiera, elemosina. Che cosa proporre ai ragazzi delle diverse fasce d’età perché scelgano di rinunciare a qualcosa per il bene di tutti, di dedicare ogni giorno uno spazio alla preghiera e di vivere la carità facendosi carico per quanto è possibile della povertà e dei poveri?”. Se pensava per sé, Sebastiano a momenti si era accorto adesso che la Quaresima era iniziata, figurati se aveva fatto qualche buon proposito…
“Il Vangelo è davvero la Buona Notizia: le persone incontrate da Gesù sono state liberate dal male, dall’insicurezza, dal peccato e dalla tristezza. È Lui che ha restituito a ciascuno la dignità e la forza di vivere in modo nuovo, ha chiesto di cambiare vita, diventando «protagonista» della propria esistenza. Non smettiamo di comunicare il Vangelo, nella forma semplice del racconto, trovando occasioni per presentare le persone che hanno saputo fare scelte libere e si sono messi «dietro a Gesù» o «hanno creduto» in Lui.” Ma che vangelo abbiamo letto in chiesa domenica, Sebastiano se lo ricordava? Aveva in mente un Cieco Nano, ma non era mica convinto che il don avesse parlato di un uomo di bassa statura che nemmeno ci vedeva…
Sebastiano era uno che si stufava facilmente, ma quei quaderni un po’ puzzolenti di umido lo avevano catturato. In fondo, tra le ultime pagine c’era una foto del “prevosto”: era vestito un po’ in modo strano, ma alla fine aveva una faccia simpatica…
Don Claudio

Scegli il bene

È tempo di ripartire! Un nuovo anno è alle porte e l’energia e l’entusiasmo che abbiamo trovato in questa estate diventa ora una forza in grado di farci ricominciare alla grande il nostro anno scout!
Come ogni anno vi presento lo slogan dell’anno della nostra diocesi per i ragazzi: è il nostro modo per sentirci dentro il cammino della Chiesa.
Lo slogan di quest’anno è SCEGLI il BENE, e penso che a noi scout dovrebbe piacere per almeno due motivi.
Anzitutto si tratta di SCEGLIERE: è una chiamata alla nostra libertà, alla nostra responsabilità, al nostro onore. È Gesù che ci chiede, nel nostro cammino di crescita di prendere posizione, di non tirarci indietro.
E poi è una chiamata al BENE: al Bene infinito che è Gesù per noi, al bene che possiamo fare concretamente nella nostra vita, al bene che è eco del “meglio” della nostra promessa.
C’è poi, quest’anno, una sorpresa: Gesù ci chiama a andargli incontro ma nello stesso tempo è pronto a offrirci tutti gli aiuti possibili! E così da quest’anno, insieme a me, ci saranno don Giovanni e don Claudio che ci aiuteranno a incontrare il Signore nel nostro percorso scout…
“Cosa? Ho capito bene? Avremo non uno, non due, ma addirittura tre AE con noi?”
“Certo! Perché oltre che essere Tanti ci aiutino ad essere Santi!”
Buon anno!
don Matteo

Misericordia e verità

In questo anno del Giubileo si parla di Misericordia un po’ in tutte le salse. C’è anche un po’ di buonismo, di solito, a condire il piatto. Si dice: misericordia è pazienza, voler bene, star vicino. E non si può dire che non sia vero. Si dice anche che per essere misericordiosi a volte bisogna chiudersi gli occhi, passar sopra ad alcune cose. Ma questo non è vero!
La misericordia è compagna di viaggio inseparabile della verità. Ma quale verità? Con quale misura si giudica il mondo, gli altri, noi stessi? Siamo noi il canone su cui misurare ogni cosa?
Uno scout sa che misura delle sue azioni è la legge. E la legge non è altro che un riflesso del Vangelo. È dunque il Vangelo che ci insegna qual è la verità. La verità del nostro agire, la verità sugli altri e sul mondo.
Guardiamo al mondo, agli altri e a noi stessi con occhi aperti, capaci di distinguere il bene dal male, la giustizia dall’ingiustizia, ma portiamo nel nostro sguardo la luce del Vangelo perché non ci capiti di giudicare in base al nostro capriccio o al nostro desiderio.
Questa è misericordia!

Dal Salmo 84
Ascolterò che cosa dice Dio, il Signore: egli annunzia la pace per il suo popolo, per i suoi fedeli, per chi ritorna a lui con tutto il cuore. La sua salvezza è vicina a chi lo teme e la sua gloria abiterà la nostra terra. Misericordia e verità s’incontreranno, giustizia e pace si baceranno. La verità germoglierà dalla terra e la giustizia si affaccerà dal cielo. Quando il Signore elargirà il suo bene, la nostra terra darà il suo frutto. Davanti a lui camminerà la giustizia e sulla via dei suoi passi la salvezza.
don Matteo

Pensare

Quando vado in montagna, anche fosse per fare due passi, cerco di avere sempre in spalla lo zaino con dentro qualcosa. Certo è più faticoso salire con un peso sulle spalle ma quel peso, quella sostanza che mi tira verso terra, mi aiuta a fare del mio camminare una cosa seria. Mi raccomando: non seriosa, ma seria, cioè piena di significato e di attenzione. E mi fa gustare di più quel cammino, mi riempie di più gioia.
Pensate che la parola pensare viene dal latino: significa “pesare”. Come si fa con la bilancia. Talvolta pensare ci pesa, perché ci piacerebbe correre via leggeri e spensierati. Ci illudiamo forse che sentire le spalle libere sia libertà. Invece quel peso che riusciamo a dare alle cose è la vera libertà. Perché ci fa gustare tutta la profondità delle nostre scelte, delle nostre relazioni, della nostra vita.
Pensare dà quindi senso e bellezza alla vita ma diventa anche uno stile per andare incontro agli altri. Pensare al nostro modo di agire e parlare con loro, chiederci come aiutarli a pensare per conto loro: è il nostro modo di dare peso alle persone che abbiamo accanto, che Dio ci ha fatto incontrare.
Scusate la citazione lunga ma qui sotto troverete un Gesù che pensa e che aiuta a pensare.
Gesù si avviò allora verso il monte degli Ulivi. Ma all’alba si recò di nuovo nel tempio e tutto il popolo andava da lui ed egli, sedutosi, li ammaestrava. Allora gli scribi e i farisei gli conducono una donna sorpresa in adulterio e, postala nel mezzo, gli dicono: “Maestro, questa donna è stata sorpresa in flagrante adulterio. Ora Mosé, nella Legge, ci ha comandato di lapidare donne come questa. Tu che ne dici?”. Questo dicevano per metterlo alla prova e per avere di che accusarlo. Ma Gesù, chinatosi, si mise a scrivere col dito per terra. E siccome insistevano nell’interrogarlo, alzò il capo e disse loro: “Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra contro di lei”. E chinatosi di nuovo, scriveva per terra. Ma quelli, udito ciò, se ne andarono uno per uno, cominciando dai più anziani fino agli ultimi. Rimase solo Gesù con la donna là in mezzo. Alzatosi allora Gesù le disse: “Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata?”. Ed essa rispose: “Nessuno, Signore”. E Gesù le disse: “Neanch’io ti condanno; và e d’ora in poi non peccare più”.
Pensateci!
don Matteo