Archivio mensile:agosto 2015

La fabbrica incantata

Cari amici ed amiche di Generazione X, dovete sapere che in una grande metropoli del nostro paese viveva un ragazzino di nome Roberto, il cui più grande desiderio era di riuscire a vedere un albero vero. Non uno di quegli alberi brutti e grigi che si trovavano in città, a lato delle strade trafficate. Roberto voleva una foresta rigogliosa e piena di vita, come quelle che finora era riuscito a trovare solo sulle pagine di un libro sponsorizzato dal National Geographic che aveva ricevuto alcuni anni prima a Natale.
Aveva provato più volte a convincere i suoi genitori a portarlo in un posto pieno di natura, ma loro non facevano che ripetergli che per fare una cosa del genere bisognava aspettare le vacanze e, quando un soleggiato pomeriggio di primavera aveva proposto alla madre di andarci da solo, così non avrebbero dovuto prendere le ferie, lei si era limitata ad accarezzarlo, dicendogli che era ancora troppo piccolo, ed era tornata a curare i fiori che teneva sul balcone.

Ma Roberto non si sentiva affatto piccolo, così, durante un uggioso sabato pomeriggio, uscì di casa deciso a trovare quella natura che da tempo andava cercando.
Purtroppo per lui però l’impresa si rivelò ben presto più ardua del previsto. Roberto sperava che, allontanandosi dal quartiere, le condizioni dei vegetali che avevano la sfortuna di abitare in città migliorassero, ma la sua era una speranza vana. I pochi alberi che era riuscito a trovare lungo i marciapiedi erano contorti, secchi e tristi. Gli ricordavano gli alveoli di un fumatore che aveva visto sul libro di scienze. Incominciava poi a chiedersi a cosa potessero servire i cartelli con su scritto “Vietato calpestare l’erba”, chi mai si sarebbe sognato di toccare con una qualunque parte del proprio corpo quei quattro ciuffi marroni? Forse avevano ragione i suoi genitori, e lui era troppo piccolo per spingersi lontano da solo a cercare la natura. O forse non si era spinto lontano abbastanza?

Improvvisamente, gli venne un’idea! A scuola aveva imparato che spesso la natura si trovava ai limiti più esterni delle città, nelle cosiddette “cinture verdi”. Gli sarebbe bastato spingersi fino ai quartieri più lontani per trovare ciò che stava cercando! Così, senza attendere oltre, andò a cercare una fermata dove prendere il primo autobus, deciso a non scendere prima del capolinea.
Roberto aveva viaggiato per più di un’ora, ma la destinazione a cui era arrivato era ben diversa da come se l’aspettava. Al posto degli alti tronchi marroni aveva trovato vecchie ciminiere storte e sbeccate; sopra la sua testa non si trovavano centinaia di foglie verdi di forme diverse, ma solo monotone parti di tetto in decomposizione o sporche travi d’acciaio che lasciavano intravedere un cielo che andava facendosi sempre più grigio, come il suo umore.
Il ragazzo si rese conto di essere finito all’interno di una qualche fabbrica abbandonata, un posto dove era impossibile trovare quel tipo di natura lussureggiante che stava cercando. Triste e deluso per l’esito fallimentare della sua ricerca, Roberto decise di tornarsene a casa; incoraggiato anche da tuoni che, in lontananza, avvertivano dell’imminente arrivo di un violento temporale.
Ma dopo aver percorso solo pochi passi verso il cancello da cui era appena entrato, il suo udito fu colpito da un rumore insolito, come una specie di guaito, provenire da qualche parte all’interno della fabbrica. Curioso di scoprirne l’origine, e di fare qualcosa che rendesse quella giornata un po’ meno brutta, corse a cercare l’origine di quel suono.
Dopo molto girovagare per quell’edificio sconosciuto, Roberto si ritrovò davanti ad una rete di metallo oltre la quale c’era, con una delle gambe posteriori incastrata in un’apertura, un cane.

I due si osservarono brevemente. L’animale aveva un pelo straordinariamente curato, e sembrava essere fin troppo abituato alla presenza dell’umano per essere un randagio: “Che sia stato abbandonato?” pensò Roberto avvicinandosi per liberargli la zampa. Una volta riacquistata la propria libertà di movimento, l’animale schizzò via all’interno della fabbrica, lontano dallo sguardo del proprio soccorritore.
Leggermente rincuorato per avere fatto finalmente qualcosa di costruttivo, Roberto pensò che avrebbe fatto meglio a comportarsi come l’animale ed uscire da lì il prima possibile. Sarebbe bastato girarsi, camminare dritti per un po’, poi svoltare a sinistra alla colonna crollata e si sarebbe trovato subito fuori.
Oppure doveva girare a destra?
Non appena il ragazzo si rese conto d’essersi perso, avvertì una profonda sensazione di freddo partirgli dalla testa, per poi avvolgere rapidamente tutto il suo corpo. Inizialmente la etichettò come una reazione emotiva dovuta al fatto di essersi perso in un luogo sconosciuto e potenzialmente pericoloso, ma ben presto si accorse che tutto intorno a lui il terreno si stava velocemente riempiendo di piccoli cerchi di colore più scuro.

Il ragazzo corse dentro ciò che rimaneva l’edificio per cercare rifugio, ma fu tutto inutile. Il tetto era crollato praticamente ovunque, eliminando ogni possibilità di trovare un riparo dalla pioggia, che intanto si faceva sempre più forte. Disperando di trovare una qualsiasi via di fuga da quella situazione, Roberto stava per arrendersi quando, in mezzo alla fitta massa d’acqua, notò una piccola macchia scura che si dirigeva verso di lui. Inizialmente intimorito, le sue preoccupazioni svanirono quando, oramai arrivato a circa un metro di distanza, la macchia si rivelò essere il cane che aveva salvato poco fa.
I due rimasero immobili a guardarsi l’un l’altro. L’animale, in particolare, guardava Roberto come se stesse valutando se metterlo al corrente o meno di un segreto. Terminate le proprie riflessioni, il cane abbaiò, ed incominciò a correre nella direzione da cui era venuto. Roberto, temendo di rimanere solo, si mise ad inseguirlo.

Il temporale si stava scatenando in tutta la sua furia; ovunque gli elementi del paesaggio erano stati sommersi da una massa d’acqua grigia che ne aveva sfumato i contorni, rendendo pressoché impossibile per Roberto capire esattamente dove quell’animale lo stesse portando, ammesso che lo stesse portando effettivamente da qualche parte. Più passava il tempo, più il ragazzo si convinceva di essersi lasciato trascinare in un inutile gioco. Eppure, nonostante questi pensieri continuava ad inseguirlo convinto, forse inconsciamente, che fosse la cosa migliore da fare.
Roberto si rese conto di aver fatto la scelta giusta quando, quasi senza accorgersene, si ritrovò in un luogo asciutto. Davanti a lui, quelli che ad una prima occhiata erano i resti un una colonna di cemento armato, un tempo dipinta di un giallo ormai sbiadito; dietro, un muro di acqua grigia che non accennava a diminuire di intensità; sopra, ad almeno un paio di metri d’altezza, un soffitto dall’aspetto strano, la cui esatta composizione era reso ancora più misterioso dalla perenne ombra in cui era bloccato quell’angolo asciutto.
Dopo essersi asciugato il pelo con una robusta scrollata, il cane si avvicinò al ragazzo che, dopo essersi seduto a terra, incominciò ad accarezzarlo.

Dopo quella che gli era parsa un’eternità, le nuvole di pioggia si dispersero, lasciando libero il sole di tornare ad illuminare tutto coi suoi caldi raggi. Roberto approfittò di quel repentino cambio di clima per uscire dal proprio rifugio e cercare di asciugarsi un po’ i vestiti ma, non appena entrò di nuovo in contatto con l’ambiente esterno, si rese conto di una cosa spettacolare.
Il soffitto che fino a poco tempo prima non era stato in grado di identificare era in realtà la foltissima chioma di un albero, il cui tronco era cresciuto fino quasi ad inglobare la colonna di cemento sul quale era appoggiato. Inoltre tutto intorno a lui numerose piante d’edera avevano reso di un acceso colore verde le vecchie pareti della fabbrica. Scintillanti gocce di pioggia ancora riposavano sulle foglie, come tante piccolissime stelle su di un cielo color menta. Le pozzanghere poi avevano trattenuto dentro di loro tutti i colori dell’arcobaleno, riuscendo a dare vivacità addirittura alla vecchia strada in disuso. Euforico per essere finalmente riuscito a portare a termine la sua missione, Roberto si chinò di nuovo ad accarezzare il cane che ormai aveva incominciato a seguirlo: «Sei stato fantastico!» disse. «Non avrei mai trovato tutto questo se non fosse stato per te, grazie…» e qui si interruppe. Come si chiamava il suo nuovo amico sprovvisto di medaglietta? Visto che ormai sembravano destinati a stare insieme, gli sembrava giusto dargli un nome vero e proprio, ma quale? Dopo una breve riflessione, Roberto ebbe una bella idea. Le qualità che il suo nuovo amico aveva dimostrato di possedere erano state intraprendenza e conoscenza del territorio e, almeno secondo quanto scritto nel suo libro del National Geographic, quelle erano le caratteristiche che descrivevano perfettamente un preciso tipo di persona: «D’ora in poi ti chiamerai “Esploratore”, che ne dici?»
Esploratore abbaiò in segno d’assenso.

Due settimane più tardi, Roberto uscì sul balcone per controllare lo stato del piccolo germoglio che aveva piantato qualche tempo addietro. Era da un po’ che aveva iniziato anche lui, come sua mamma, a coltivare l’hobby del giardinaggio. Del resto, grazie alla sua avventura, aveva capito che la bellezza della natura poteva sbocciare ovunque, anche in una città grande ed affollata come la sua.
E poi, da quando era quasi scappato di casa, i suoi lo avevano messo in punizione, proibendogli di uscire per almeno un mese, quindi si era dovuto inventare qualcosa che gli permettesse di rimanere in contatto con la natura fino a quando lui ed Esploratore non sarebbero partiti per la loro prossima avventura.

Tricheco birbante

Quel che resta del rover

Questo è il momento in cui giriamo l’ultima pagina dell’album “Scatti di coraggio: l’esperienza della Route Nazionale 2014”. Devo confessare che sopraggiunge un poco di mestizia. L’idea di scrivere un ciclo di articoli sulla più recente route dell’Associazione mi è venuta perché ritenevo che un evento di tale portata richiedesse molto tempo per essere digerito, apprezzato, giudicato (così scrivevo nell’ormai lontano n. 142 di Tuttoscout). Mi sono accorto, però, che tener viva la memoria mi ha aiutato a tener vivo lo spirito (lo spirito da rover, s’intende: lo spirito saldo e giocherellone). Così quello che doveva considerarsi “fatica” (il lavoro di individuare singoli attimi della Route per analizzarli e cavarne fuori cose intelligenti) è divenuto piuttosto sostegno nell’affrontare una difficile chiamata al servizio (bella espressione: la usano parecchio in Associazione!). Difficile perché seria, seria perché esigente. Ad un incontro regionale capi il simpatico e barbuto assistente ecclesiastico ha spiazzato tutti quando, rivolgendosi ai capi ventenni, ha affermato: “E voi non pensate di considerarvi giovani! Voi siete (dovete essere) adulti. Punto. Non prendiamoci in giro”. Io sono molto in difficoltà quando qualcuno, en passant, mi dice “Ah quindi tu sei capo…”. Momento. Diciamo che mi sto sforzando. Quanto all’adulto, invece, mi sento già più in pista ma non certo per merito mio. Il merito, piuttosto, è dei tanti anni di educazione scout che mi hanno portato alla Partenza. La Partenza serve perché ti danno un’accetta. L’accetta serve per farsi largo nelle difficoltà. Lo spirito rover serve a farsi largo restando dritti e sorridendo.

Questo è quel che resta del rover, ma cosa resta della Route Nazionale 2014? Certamente non poco: le azioni di coraggio, una targa e un portale al parco di S. Rossore, un ricco e stimolante documento. Su quest’ultimo occorrerebbe interrogarsi sia in Clan che in Comunità Capi. Per i Clan: quanto è servita la Carta del Coraggio? Ha orientato la scelta dei capitoli? Ha fornito spunti per modifiche alla Carta di Clan? A queste domande non posso rispondere (magari un pimpante rover o una bellissima scolta potrebbero scrivere un articolo, no?). Per la Co.Ca.: ci siamo interrogati a sufficienza sulla Carta del Coraggio? Ne abbiamo analizzato i contenuti? Abbiamo tratto spunti ed idee per il prossimo progetto educativo di gruppo? La risposta è no, ma bisogna avere pazienza: la fretta uccise il serpente giallo che mangiò il sole. Non si può montare una tenda prima di aver analizzato il terreno e tolto sassi che la notte potrebbero impedirci il sonno tranquillo. La Co.Ca. ha fatto grandi passi avanti in questo anno (alcuni visibili, altri meno): stiamo ancora lavorando, ma sono certo che presto avremo tempo e modo di riflettere sulla Carta del Coraggio e su molte altre importanti questioni.

Mi perdonerete se questo articolo risulta un po’ disordinato: sto scrivendo di getto, diversamente dalle altre volte. Il fatto è che non riesco a trovare un’immagine che possa degnamente riassumere tutta la RN; ne ho ancora parecchie in mente, ma nessuna sembra poter essere così ampia da contenere il ricco significato di un’esperienza storica che non si ripeterà se non fra qualche decennio. Forse dobbiamo guardare alla prossima route nazionale: forse dobbiamo ancora una volta ricordarci che per lo scout, così come per il cristiano, la fine è sempre legata ad un inizio. Forse in questa lunga route che è la nostra vita, il parco di S. Rossore non è stato che una tappa: abbiamo smontato le tende, lasciato il posto meglio di come l’abbiamo trovato e siamo ripartiti. Dove ci fermeremo la prossima notte? Quali compagni avremo di fianco? Chi ci aiuterà a portare lo zaino? Cosa ci aspetta ancora lungo la strada?

Carlo Maria

Come con gli occhi di un Castorino

Ciao a tutti, sono Benedetta, una scolta del clan Zenit e questo è il mio primo anno di servizio nella Colonia Stella Azzurra. Per chi non lo sapesse o non se lo ricordasse i componenti di una colonia sono dei bambini che con una canzoncina di apertura si trasformano idealmente in castorini e creano, tenendosi per mano, una diga piena d’acqua.

Io, che non ho mai fatto parte di una colonia perché sono entrata al terzo anno di reparto, inizialmente non sapevo cosa fosse, proprio come i nuovi arrivati che devono scoprire un mondo mai visto.
Una delle cose che più mi piace è il fatto che i castori riescono a distaccarsi dalla realtà, per esempio quando nelle scenette, pur sapendo che sotto il travestimento c’è una Sara, un Valter o un Robi, lo considerano come un vero e proprio personaggio.
Un’altra cosa che mi affascina è vedere l’espressione dei castorini durante la lettura di uno de “I racconti degli amici del bosco”, infatti essi sono talmente coinvolti e catturati dalla storia che rimangono ad ascoltare quello che il capo sta narrando con un’aria di stupore, di ammirazione, in certi momenti di ironia. Dopo il racconto si è soliti chiedere qual è stata la cosa che li ha più colpiti: sono diverse le une dalle altre e spesso citano anche esperienze che loro stessi hanno vissuto in prima persona, raccontando di come si sono comportati o comunque di come hanno risolto la situazione.
Apprezzo molto la spontaneità dei bambini, la loro capacità di dire quello che pensano, di essere amici di tutti, di fare bene ogni cosa e sebbene abbiano interessi e caratteristiche molto differenti tra loro, hanno sempre la voglia di fare le cose insieme!

L’anno passato insieme a questa meravigliosa famiglia è quasi giunto al termine, resta solo il campo estivo. Posso certamente dire che mi trovo molto bene e che in un certo senso mi sento un po’ tornata bambina, in quanto quando, per esempio, prepariamo le attività siamo tenuti a pensare come bambini. Diciamo che quasi dobbiamo agire come fece William Blake quando scrisse The Song of Innocence, il quale nelle sue poesie descrive con gli occhi di un bambino.
Concludo con una frase di Luis Sepulveda: «I miei sogni sono irrinunciabili, sono ostinati, testardi e resistenti». Perciò non smettiamo mai di sognare e immaginare, proviamo a portare nel nostro quotidiano qualcosa di castorese.
Benedetta

Libellula lunatica

Che cos’è la salute?

Questa domanda mi è stata proposta in un tema scolastico di qualche settimana fa ed è la stessa domanda che volevo rivolgere a voi lettori.
Che cos’è la salute?
Qualcuno dirà: “Eh, bella domanda!”. Ed è quello che mi sono detta io prima che mi venissero idee all’inizio del compito in classe.

La prima cosa che viene subito in mente pensando alla salute è la bellezza del proprio corpo e da una parte è la cosa principale per avere una buona salute.
Ma quindi, bisogna solo avere un “bel corpo” per avere una buona salute? O ci sono altri fattori, forse anche più importanti?
La maggior parte delle persone, soprattutto i giovani, credono che per stare bene bisogna principalmente avere un bel corpo, essere magri ed essere belli, perché al giorno d’oggi il modello della perfezione è una persona con un bel corpo.
Sappiate, cari ragazzi/e, che la persona che ha tutte queste caratteristiche è probabilmente la donna/uomo più infelice sulla faccia della terra.
Basta pensare alle modelle, che per fare quel lavoro devono avere un corpo talmente magro da essere anoressiche e dopo del tempo di carriera si legge sui giornali del loro suicidio.
Al giorno d’oggi ci sono troppe pubblicità che ci ficcano in mente l’idea che per star bene bisogna dimagrire, e che per dimagrire bisogna mangiare sano. Io sono la prima persona che sostiene che un’alimentazione sana ed equilibrata sia una delle cose più importanti nella vita di una persona, perché se non si mangia in una maniera corretta non si può pretendere di avere un bel corpo.

Ma cosa si intende per avere un bel corpo?
La prima riposta che darebbero tutti è che avere un bel corpo significa essere magri, ed è ciò che ci mettono in testa le famose e adorate pubblicità. Quasi tutti, credo, almeno una volta nella vita ci siamo pesati e ci siamo lamentati, ci siamo guardati allo specchio e tirando la “ciccia” abbiamo commentato: “Ma che schifo, sono grasso/a!” (specialmente le ragazze) anche se quella che tiravamo non era grasso, ma pelle.
Tutto questo perché il modello di un corpo perfetto della società di oggi è un corpo magro e noi, come dei caproni, pensiamo che sia davvero così.
Ma tornando al discorso di prima, in base a ciò che ritengo giusto, credo che la felicità di ognuno derivi dal fatto di stare bene con se stessi.

Ma cosa si intende con stare bene con se stessi?
Star bene con se stessi significa sentirsi realizzati per ciò che si fa nella propria vita, avere una famiglia con cui si sta in armonia, trovare degli amici con cui si possa essere se stessi e nel complesso trovare la pace interiore.
Per me stare bene significa allenarmi per superare i miei limiti, andare a scuola per raggiungere i miei obiettivi, avere un buon gruppo di amici con cui passare il mio tempo libero e avere una famiglia che sa ascoltarmi.
Ultimamente si è diffuso il fenomeno delle “finte grasse” che io personalmente odio e la presenza nella mia classe è molto elevata, non so nella vostra. Sono principalmente, se non unicamente, ragazze che hanno un bellissimo corpo, ma che non mangiano, che è la cosa più sbagliata ed inutile, per dimagrire.
Le classiche frasi sono le seguenti: “Mangio solo una merendina a pranzo così evito di ingrassare!” oppure “No! Io non mangio che sono grassa!”.
Poi sono le prime che quando tornano a casa divorano la dispensa come un bulimico in piena crisi ed hanno l’effetto contrario di quello che volevano ottenere.
Io credo che il segreto per avere un bel corpo sia semplicemente mangiare in maniera sana e praticare regolarmente attività fisica. Tutto il resto è assolutamente inutile, specialmente il digiuno.
Qualche giorno fa, mentre camminavo in centro a Milano con una mia amica, mi ha colpito un cartello pubblicitario, che promuoveva una campagna contro l’anoressia e su questo manifesto era rappresentata Isabelle Caro, una modella che morì nel 2010 di anoressia e diceva: “Vorrei riavere il mio corpo di prima, quello che pesava 50 kg, e non quello che ho ora, che ne pesa 25.”
Quel manifesto mi ha fatto riflettere molto e soprattutto mi ha fatto pensare alle mie compagne di classe e alla maggior parte delle ragazze di oggi.

Nella società di oggi conta il parere degli altri.
Nella società moderna bisogna essere magri per sentirsi bene.
Nella società di oggi si seguono le mode.
Nella società moderna non si riesce neanche più ad essere se stessi.
Credo che chiunque si debba poter guardare allo specchio ed essere fiero del corpo che ha, senza piangersi addosso perché ciò che vede riflesso è diverso dallo standard di bellezza.
Bisognerebbe fregarsene del parere di tutti quanti, essere se stessi ed urlare al mondo che essere diversi da tutti è un pregio e non un difetto.
Non hai la 38 come la tua compagna di banco? Trova qualcosa che tu hai e che lei non ha.
E smettiamola di avere un modello della perfezione per la magrezza e la bellezza, perché ognuno è bello per come è.
D’altronde le donne del passato erano considerate più belle se avevano i fianchi larghi ed erano un po’ in carne.
No?

Tigre energica