Archivio mensile:febbraio 2018

HANNO LASCIATO UNA TRACCIA – Luigi e Maria Beltrame Quattrocchi

Luigi e Maria Beltrame QuattrocchiLuigi e Maria Beltrame Quattrocchi, un uomo e una donna che si sono voluti bene, due sposi che si sono gioiosamente e con pienezza aiutati reciprocamente nella strada verso la felicità, nella strada del Signore. Un babbo ed una mamma che hanno cresciuto figli cercando per loro le cose migliori, non le più facili ma le più grandi, perché anche questi figli potessero gustare la gioia del Signore.
È la prima volta che nella storia della Chiesa una coppia è innalzata all’onore degli altari per le sue virtù coniugali e familiari. Si tratta dei primi beati Scout italiani. Lo Scautismo cattolico italiano è riconoscente a Luigi e Maria per la esemplare testimonianza che è proseguita in modo fruttuoso attraverso il servizio di assistente ecclesiastico reso nell’Asci prima, e nell’Agesci poi, dal figlio, don Tarcisio, noto come “don Tar – Aquila Azzurra”, autore del testo della canzone: “Al cader della giornata”.

La causa di beatificazione di Luigi e Maria Beltrame Quattrocchi viene aperta il 25 novembre 1994, mentre il 21 ottobre 2001 Giovanni Paolo II innalza la coppia agli onori degli altari. Il 28 ottobre 2001 i corpi dei coniugi vengono trasferiti nella loro cripta presente nel Santuario della Madonna del Divino Amore a Roma.

Il miracolo che ha consentito la loro beatificazione riguarda Gilberto Grossi, colpito da una malattia invalidante fino dall’età di dieci anni; fra l’incredulità dei medici, nonostante la malattia rimanga in tutta la sua gravità, conosce una completa remissione dei sintomi, grazie all’intercessione dei Beati, e può realizzare il suo sogno: diviene neurochirurgo, si sposa e conduce una vita normale.

La Chiesa ricorda i Beati Luigi e Maria rispettivamente il 9 novembre e il 26 agosto, ed è viva l’eco delle parole di Giovanni Paolo II:
“Non può più essere accettabile venga negato il giusto riconoscimento alla santità silenziosa e normale di tanti padri e madri”.

GENERAZIONE X – Impressioni a velocità luce

Sono sicuro che tutti e sei i gentili lettori che seguono con costanza i miei articoli avranno ormai compreso che amo strutturarli partendo da riferimenti a film o serie TV più o meno recenti. Faccio questo perché spero di catturare l’interesse del lettore facendo leva sulle sue possibili conoscenze pregresse, perché sono genuinamente convinto che il modo migliore di comprendere la realtà sia attraverso la narrativa e perché, in questo modo, posso dire a me stesso che tutto il tempo passato davanti alla TV non è sprecato.
Originariamente era mia intenzione procedere allo stesso modo con questo articolo, anche considerando che tema di questo numero (Il nostro impatto sul mondo extra-associativo) ben si agganciava ad un film che ho visto recentemente, la cui trama prevedeva il precipitare di meteoriti sulla Terra e protagonisti messi alla prova dalla necessità di farsi comprendere in un ambiente che non era propriamente il loro.
E prima che possiate pensarlo no, non era un blockbuster americano e sì, c’erano un sacco di belle esplosioni.
Ma come spesso accade nella vita, le decisioni finali non vengono prese da noi ma dalle circostanze che ci circondano, e così è stato per me.
Il mio progetto originale si è infatti impattato al suolo non appena ho avuto il piacere di leggere gli articoli, ed ascoltare le opinioni che i miei repartisti hanno voluto condividere con me.
Non credo di stare tradendo, con questa mia decisione, il tema scelto per il giornalino. L’idea era infatti quella di affrontare il tema dell’impatto in un luogo diverso da quello su cui ci muoviamo scoutisticamente tutti i giorni, ma nessuna nazione sulla Terra sarà mai tanto aliena e diversa da noi quanto l’animo delle persone che abbiamo vicine. Ed io sento di essere riuscito, nel bene e, ahimé, nel male, a lasciare là un vero impatto. È là che, più o meno volontariamente ho lanciato le mie meteore che hanno formato nuove alture e nuovi crateri, che si sono poi riempiti dei pensieri e delle riflessioni dei colpiti, ed hanno assunto un nuovo e bellissimo aspetto di lago.
E se questa cosa è stata possibile a me, sono sicuro che sarà avvenuta allo stesso modo in tutti i nostri ragazzi e che anche loro, come una specie di granitica pianta spaziale, con le loro parole e le loro azioni saranno in grado, anche senza fazzolettone, di impattare negli animi delle altre persone e lì, col tempo, germoglieranno.

Tricheco birbante

Bello da morire!

È un modo di dire, certo. Eppure mi colpisce perché stabilisce una correlazione diretta tra la vita e la bellezza: è come dire che la vita è in cerca di una bellezza, e che quando la trova in qualche modo si compie, si completa. Al punto che uno è disposto a dare tutto per quella bellezza.
C’è da dire, però, che quando vediamo che qualcuno “spende” la sua vita per qualcosa, nella nostra testa risuona una vocina che ci dice: ma ne vale davvero la pena?
E come uscire da questo dubbio? Come essere certi che ne valga la pena?
Ci vorrebbe una correlazione, quasi una parità: io do la vita per qualcosa o per qualcuno a patto che anche lui la dia per me…
Non so se avete già capito dove voglio arrivare… penso di sì, per cui desidero soltanto augurarvi un buon Natale:
Che possiate vedere nel Dio-con-noi
la risposta alla grande domanda
che portiamo nel cuore!
Don Matteo

VOLONTARIATO – Cesvov Intervista a Maurizio Ampollini, direttore del Csv Insubria

Maurizio AmpolliniQuando, come e perché è nato il Cesvov?
Il Cesvov (Centro di Servizio per il Volontariato della provincia di Varese) è nato nel 1997 in attuazione della Legge quadro sul volontariato (266/91), che prevedeva, tra le altre cose, la nascita di Centri che supportassero il volontariato. Dallo scorso anno c’è però una nuova normativa che regola il terzo settore, e alcune cose sono cambiate e stanno cambiando anche per i Centri di Servizio.
Sul nostro territorio, ad esempio, si è fatta la scelta di unificare i Centri di Varese e Como: motivo per cui oggi siamo diventati il Centro di Servizio per il Volontariato dell’Insubria, ovvero Csv Insubria. Dal punto di vista formale e della governance Centri di Servizio sono associazioni di associazioni che, attraverso meccanismi complessi – che prevedono uno stretto controllo – ricevono i fondi per poter erogare i loro servizi dalle Fondazioni di origine bancaria, nel nostro caso in Lombardia principalmente dalla Fondazione Cariplo. Vi ricordo che il Centro di Servizio di Varese fa anche parte della rete dei Centri di Servizio della Lombardia (Csv Net Lombardia) e della rete nazionale Csv Net, questo per dire che realtà come la nostra sono presenti in tutta Italia.

Di cosa si occupa nella pratica?
Il Centro di Servizio per il Volontariato ha avuto come compito quello di supportare le associazioni di volontariato con servizi gratuiti di consulenza amministrativa e contabile, di formazione, di informazione e documentazione. Inoltre, tra le attività svolte, vi è sempre stata quella della promozione del volontariato sul territorio. Nel Varesotto questi servizi sono sempre stati estesi anche alle associazioni di promozione sociale, prima in base a specifici accordi con la Provincia di Varese e in un secondo momento prevedendo per questi soggetti delle tariffe. Oggi la nuova legge amplia il numero di soggetti a cui ci rivolgiamo: siamo, infatti, al servizio di tutti gli enti del terzo settore nei quali operino dei volontari. Inoltre, non siamo più semplici erogatori di servizi, ma svolgiamo sempre più un ruolo di accompagnamento al volontariato nella lettura dei bisogni del territorio.

Quante e che tipo di associazioni raccoglie?
Come già detto il Csv è una associazione di associazioni: oggi il Csv Insubria conta 168 soci: essere socio significa poter partecipare alla vita dell’associazione, come succede in qualsiasi associazione. Differente è il discorso dei servizi erogati: la legge dice che essi sono rivolti gratuitamente a tutti i volontari, indipendentemente dal tipo di ente di terzo settore in cui essi operino. Per questo il numero di associazioni a cui ci rivolgiamo è decisamente più ampio.

Qual è la risposta del territorio ad un’istituzione come la vostra?
Con il territorio abbiamo sempre avuto un rapporto molto positivo e di collaborazione soprattutto per quanto riguarda le collaborazioni con i Comuni per i Piani di zona, ma anche con le scuole e le Università del territorio non sono mancate occasioni di collaborazione.

Quale contributo può dare un normale cittadino al vostro operato?
Più che altro siamo noi che possiamo dare un contributo ai cittadini: tra i soggetti a cui ci rivolgiamo, infatti, ci sono anche i “potenziali volontari”, ovvero coloro i quali non sono ancora attivi, ma vorrebbero fare volontariato. Abbiamo diverse attività di promozione del volontariato: per i giovani, ad esempio, siamo un punto di riferimento per i progetti di volontariato europeo (Sve) che permettono di fare esperienze di volontariato all’estero, ma anche di Servizio Civile Nazionale. Attraverso una bacheca on line diamo inoltre la possibilità di conoscere le opportunità di volontariato sul nostro territorio.
Cosa deve fare un’associazione per legarsi a voi?
Come detto diventare soci del Csv Insubria è una scelta che deriva dal voler aderire alla vita stessa del Centro e il nostro regolamento detta i passi da fare per una adesione formale di questo tipo. Diverso è il voler usufruire dei servizi o semplicemente restare informati sulle novità e sulle nostre proposte: in questo caso è sufficiente consultare il nostro sito, iscriversi alla nostra newsletter o seguirci sui social.

Al di fuori dell’intervista, un’iniziativa che ci viene segnalata è premio “Giovani nel Volontariato” che mette sul podio tre ragazzi che hanno tra i 16 e i 25 anni, in un simbolico passaggio di testimone tra vecchie e nuove leve. Al premio giovani nel volontariato possono essere candidati sia singoli ragazzi che gruppi.
L’obiettivo del premio è quello di raccontare storie che siano esempio per tutti, ma anche di avere un giorno in cui dire grazie a tutti i volontari che operano nella quotidianità, affiancando spesso le istituzioni che operano nel sociale. Per questo motivo da alcuni anni si è scelto di coinvolgere nella premiazione anche i sindaci dei Comuni di residenza dei volontari stessi: la cerimonia di premiazione si terrà nel mese di maggio.

Riferimenti
Sito: www.cesvov.it
Tel. 0332.237757
Facebook: https://www.facebook.com/cesvov. varese/

Convertiti e credi al Vangelo

IMPATTO. Se rifletto sul primo collegamento mentale che questa parola mi evoca, mi viene da pensare ad un incidente. Ma credo che questo sia il modo peggiore per intendere la capacità dello scautismo di lasciare un segno nel mondo. Un incidente, qualcosa di brutto generato da uno scontro. Questo è il risultato che otteniamo quando pretendiamo di mostrarci i migliori di tutti, quando crediamo che le cose così siamo bravi solo noi a farle, che se non vivi l’avventura da scout non la vivi proprio, che puoi sperimentare una fede vera solo se ti lasci interrogare dalle tracce di Dio nella natura, altrimenti sei un bigotto. Generiamo uno scontro che separa, che incattivisce, che chiama ciascuno a far prevalere le proprie ragioni con troppa determinazione, proprio come fanno i due guidatori delle macchine coinvolte nel sinistro. Invece credo che noi abbiamo ben altra responsabilità, che è quella di “spingere contro”. Sono andato a riesumare il vecchio dizionario di latino, e questo è il significato più profondo della parola IMPATTO. Se ti spingo contro a qualcosa, in qualche modo tu ne rimani segnato. Se ti spingo contro una superficie fredda, ti trasmette la sua temperatura. Se spingo un sigillo contro la ceralacca, ne lascerà impressa la sua forma. Allora sì, noi scout siamo chiamati a spingere gli altri contro una sorgente incandescente di bene, un sogno meraviglioso che deve necessariamente lasciare il segno. Io penso che siamo chiamati, in fine dei conti, a spingere gli altri verso Dio. Non credo che se ne avrà a male, anche se saremo poco delicati. Una volta che noi avremo generato questo IMPATTO, poi sarà lui a decidere di lasciare il suo segno. Un segno buono, che non separa i migliori dai peggiori, ma chiama tutti a riunirsi sotto lo stesso Amore. Castorini, lupetti, esploratori e guide, novizi, rover e scolte, capi, AE ognuno nel suo piccolo fallisce la propria missione se alla fine di tutti i propri sforzi, dopo aver costruito la diga, cacciato nella giungla, tracciato il sentiero, fatto strada servendo, educato nella testimonianza, trasmesso la fede non riusciamo a dire di aver “spinto contro Dio” ognuno dei nostri compagni di cammino, aver permesso che ad ognuno di loro rimanesse impresso il Suo segno. E tra tutti i segni che Dio ci ha trasmesso, penso che quello della cenere, che nella domenica all’inizio della quaresima riceviamo sulle nostre teste, sia il più eloquente. Quella cenere, generata dal rogo degli ulivi portati in processione nella domenica delle Palme precedente, dice bene su cosa dobbiamo contare: non certo sul successo nel mondo, sulla gloria dei palcoscenici, sui like dei social network. Cos’è rimasto degli ulivi e delle palme che venivano mosse per rendere omaggio al Salvatore? Un pugno di cenere. E non diciamoci che fine ha fatto quel Salvatore, prima osannato, poi appeso al legno. Ma quel che conta, quello che importa davvero, è ciò che si dice mettendo la polvere sulle nostre teste: “Convertiti e credi al Vangelo”. Ecco quello che importa sul serio, il segno indelebile del nostro “appartenere a Dio”: la conversione continua, la sensazione di non essere mai arrivati, di poterci mettere sempre in discussione; e il Vangelo, quel testo infuocato che ha resistito al trascorrere dei millenni senza mai diminuire la propria intensità. Se riusciremo a trasmettere questo, a spingere contro questa logica, a determinare questo IMPATTO, allora quella “C” prenderà di nuovo tutta la sua consistenza. Buona Quaresima, buon IMPATTO con un amore sprecato che ci permette di risorgere.
don Claudio

Le avventure di Oo

Ciao! Cari ragazzi, le avventure di Oo, la tartaruga della Giungla Indiana, hanno visto il suo racconto di arrivederci, nello scorso numero di “Tuttoscout”. Che ne dite se un mio amico vi racconta la sua storia? Spegniamo il chiasso della giungla, delle nostre città, ed insieme avviciniamoci a questa nuova storia, vecchia di secoli, in silenzio, la storia di una città, Assisi, dove tanto tempo fa, tutti si conoscevano e si riconosceva un forestiero da lontano, come si riconoscevano i pazzi, i lebbrosi e i mendicanti…
È un pomeriggio tranquillo, il sole rimbalza tra le pietre delle vie, lungo le strade corrono bambini, giocano ai cavalieri, con le loro spade di legno. Tutti loro conoscono le storie di cavalieri, nessuno conosce le storie dei mendicanti: chi sono, come si chiamano, a nessuno importa nulla di loro. Ogni tanto una mano si abbassa verso quella ciotola che sta ai loro piedi: chi dà spiccioli, pane e chi, per divertirsi, mette sassi o scarafaggi. E i più sfortunati sono i lebbrosi, costretti a vivere fuori dalle mura della città, lontano dal pubblico passaggio, in capanne di legno o grotte, ammassati lungo un rigagnolo di acqua sporca, che raccoglie i loro escrementi. Qui la sofferenza diventa un’abitudine e il silenzio è il sollievo eterno per molti di loro. Qui non si ha paura del contagio e chi aiuta sa che l’altro sta peggio di lui! Mi chiamo Bartolomeo e non sono un lebbroso, almeno non per adesso e non conto di diventarlo. Un tempo avevo amici e parenti, una moglie ed un lavoro a Spoleto, costruivo mobili in legno, come mio padre. Ma i miei clienti mi pagavano quando potevano e magari con una gallina o delle uova o con i loro sorrisi ed una grande stretta di mano. Ero contento così, dovevo però pagare i materiali, le tasse e sostenere me e mia moglie, non troppo contenta di vivere così semplicemente. Lei voleva vestire come le mogli degli altri artigiani, voleva e voleva e voleva… credo, un altro marito! Ho cominciato a rifiutare alcuni lavori, finchè un giorno, ed è stata la mia rovina, ho accettato, sotto gentile consiglio di mia moglie, un grosso lavoro per un nobile, vecchio conoscente di mio padre, che mi commissionò un sontuoso scrittoio: intarsiato, di vario legname, con cassetti e cassettini e due sedie di paglia e legno con tessuto. Feci un grosso debito per anticipare il legname da lavorare, con lo strozzino venditore di vino della bottega vicino la mia, e avrei dovuto restituire a mastro Cosimo tutta la cifra più il quaranta percento, entro un anno. Dovevo solo lavorare di più per la felicità di mia moglie che così poteva comperarsi bei vestiti. Gli altri lavori non bastavano a coprire gli interessi chiesti da mastro Cosimo e neppure il nobile signore mi pagò per intero il lavoro dello scrittoio. Dopo un anno, chiesi un nuovo prestito e, non riuscendo a saldare tutti i miei debiti, alla scadenza, mi tolsero ogni cosa. E ora mi ritrovo ad Assisi, faccio il mendicante e sono contento. Mia moglie… ora commercia in vini ed è felice! Sono andato via da Spoleto per la vergogna, ho fatto fagotto con pochi vestiti e qualche arnese del mio mestiere, ho scaldato le mie gambe e sono arrivato a piedi, fino a qui. Riparo sedie, ceste e piccoli oggetti di legno, non chiedo soldi, ne ho quasi paura, mi danno da mangiare o mi regalano una camicia, se va bene un paio di scarpe, altri mi offrono da dormire nelle loro stalle, fra asini e pecore. Ho ricevuto anche calci, e un ragazzetto, un giorno, mi ha lanciato un sasso, rompendomi il naso. Ho pianto quel giorno: che diritto mai poteva avere, per farmi del male? Avevo paura delle malattie che giravano fra i mendicanti e delle guardie, così mi spostavo fra le vie di Assisi. Preferivo un posto vicino al Tempio di Minerva o anche a San Rufino, il Duomo. Molta gente passava, ma una sola mi è rimasta nel cuore. Se il marito era forestiero per affari, lei di sera usciva di casa, con una donna sua accompagnatrice, usciva a medicare ferite ai come me, causate dai maltrattamenti e dalla vita all’aperto, giorno e notte. Quando toccò a me esser medicato, fui turbato da tanta delicatezza, usata per evitarmi altro dolore. Avrà avuto la mia età e, dalle sue vesti, si intravedeva un leggero gonfiore, segno di una nuova vita felicemente manifesta. Le feci i miei migliori auguri per la nascita di suo figlio ed, al suo semplice grazie, osai chiederle, se avesse bisogno di riparare sedie. Mi chiese il mio nome e dicendomi che si sarebbe ricordata di me, tornò a casa. Con il passare dei giorni, la ferita al naso guarì, l’osso mi faceva ancora male, però riuscivo a respirare meglio. Per qualche tempo lasciai Assisi, alla ricerca di nuovi lavori. Non ricordavo il tempo dell’ultimo bagno caldo con del sapone, la nozione del tempo si perde se non si hanno riferimenti precisi. Ricordo d’esser scappato da Spoleto, a primavera iniziata e lungo le strade avvenne il mio incontro con gente come me. Camminavano, portando con dolore le loro piaghe, coperti solo di stracci, dove la piaga raggiungeva la profondità della carne, ogni movimento provocava un lamento soffocato. Queste povere creature ogni tanto ricevevano visita, fuori dalle mura, dove vivevano, di persone che portavano loro acqua pulita e cibo. Se uno di loro entra in Assisi, è schivato, non degnato di sguardi, ma insultato da ragazzacci che sfogano la loro cattiveria, fisicamente, su noi mendicanti, non lebbrosi. Possiamo solo portare pazienza. Dopo diversi anni, tornai ad Assisi, ma trovai la città diversa. Seppi della guerriglia degli assisani, del popolo contro la classe nobile e della fuga di questi ultimi a Perugia. E fu allora, che la rividi. Era proprio la donna che abitava accanto alla bottega di stoffe, mi riconobbe e mi salutò. Le chiesi della gravidanza di allora e lei dicendomi che era nato un maschio, mi espresse la sua più grande preoccupazione per lui, partito in battaglia con gli assisani e non più tornato da dieci mesi. Mi fermai ad Assisi e seppi che quella donna si chiamava Pica, moglie di Pietro Di Bernardone, commerciante di stoffe e prestasoldi. Questa parola mi arrivava alle orecchie come un pugno, ricordandomi il perché indosso questi stracci. La bottega, si vede che è ben avviata, tanta gente va e viene dalla porta principale, ma la mia attenzione si sposta sul retro della casa, dove una porticina vede entrare ed uscire gente meno nobile e ben vestita. Operai di Pietro e povera gente che chiede soldi, come feci io tanto tempo fa. Vorrei metterli in guardia, ma chi ascolta uno straccione? Oggi ho visto entrare Donna Pica nella Chiesa di San Giorgio. Entro anch’io, non sono un buon cristiano, ma sento di chiedere al Signore che suo figlio torni a casa sano e salvo. Passano alcuni giorni e Pietro è in partenza, in sella al cavallo e per le redini ne tiene un secondo, sellato e con delle coperte legate sopra. La bottega resta chiusa. Qualche giorno dopo, un gran trambusto accoglie il ritorno di Pietro Di Bernardone e di suo figlio Francesco, chino sul dorso del cavallo, con la barba ed i capelli lunghi, il volto scavato. “Bentornato Francesco! ” grida la gente. Di tanto in tanto, Donna Pica, salutandomi, si fermava a raccontarmi del figlio minore, Angelo, devoto al padre e sempre con lui in bottega e in giro per affari. Ma il volto della donna si incupiva quando provava a parlarmi di Francesco. È più caritatevole del dovuto, diceva la gente. Ma dopo qualche mese, eccolo di nuovo in sella al cavallo, pronto a partire per le Puglie, a seguito di un nobile, per una giusta causa, ridando gioia al padre, che in lui vedeva la speranza di prestigio per la sua famiglia, e di nuovi affari, al suo ritorno. Il figlio di Donna Pica e Pietro, è tornato presto, si è fermato a Spoleto per un malanno, ed è tornato a lavorare nella bottega del padre. Il paese non è grande e si dice ovunque che Francesco è tanto cambiato! Dicono che sta cercando qualcosa, al di là della collina. Anch’io l’ho visto un giorno, mentre cercavo fichi da mangiare, verso la pianura, dopo la collina. È entrato in una vecchia chiesa diroccata, custodita da un vecchio prete. Il tetto era crollato, sul pavimento pietre e calcinacci. Francesco si inginocchia e sta in silenzio; poi alzandosi va verso qualcosa, una tavola piena di polvere. La depone davanti all’altare, la pulisce e con una cordicella la erge sopra l’altare. Le mani di Francesco avevano fatto riaffiorare da quella tavola, il volto dipinto di Cristo. Il vecchio prete non c’è e il giovane piange aggrappato alla sua croce. Poco dopo spaventato, scappa. Un giorno Francesco andò a Foligno con un cavallo e tante stoffe, ma al suo ritorno, le stoffe non c’erano più e neppure il cavallo. Lui era a riparare il tetto della chiesetta di San Damiano. La voce tra la gente che quel ragazzo è proprio partito di testa, arriva fino al padre. Un corteo danzante attraversa la città e al centro c’è un uomo con vestiti logori, capelli e barba lunghi cammina riparandosi il volto dal fango che i ragazzi gli tirano addosso. “Sta arrivando Francesco” si sente gridare. Pietro esce di bottega, in malo modo trascina suo figlio a casa, sotto gli occhi terrorizzati di Donna Pica. Pietro porta Francesco nel ripostiglio e lo incatena. Pochi giorni dopo, Pietro parte con Angelo, ben vestiti e con cavalli carichi di stoffe, per nuovi affari. Donna Pica, una sera molto tardi, accompagna alla porta il figlio liberato, e lui si allontana lentamente verso la discesa di San Damiano. Al ritorno, Pietro non trova il figlio, ed è furioso, sa dove trovarlo e si incammina. Gli vieni incontro per la strada, proprio Francesco. “Puoi anche rinchiudermi, ma non cambierò la mia dedizione verso chi soffre e verso Dio!” Pietro gesticola, come se dicesse del figlio che non è a posto di testa, e grida “Ladro, i miei soldi! ”. Pietro guarda la gente che gli stava intorno come per cercare approvazione. “Vieni dal Vescovo con me, ladro!”. Raggiunsero a piedi il palazzo del Vescovo, non lontano dalla bottega di Pietro Da Bernardone. Le voci erano già arrivate a palazzo, prima dei due. Pietro a testa alta e Francesco, braccia a penzoloni e volto chino, attendono il vescovo nella grande sala delle udienze. La voce del vescovo rompe il brusio della sala e dopo che il prete chiede il silenzio, Pietro si fa avanti e chiede di parlare. “Mi ha rubato i soldi per darli ai lebbrosi! Mi ha venduto stoffe preziose e anche il cavallo! ”. “E tu cos’hai da dire?” chiede il Vescovo a Francesco. Il silenzio è pesante. Tutti gli occhi sono sul giovane che ora parla: “Voglio seguire la strada che Dio mi ha indicato”. Io Bartolomeo, intrufolandomi fra la gente, non sento bene ma i miei occhi vedono Francesco tirar fuori un sacco da sotto le vesti e darlo al padre, si toglie la cintura e i vestiti, rimane nudo. “Eccoti padre tutto quello che è tuo! Ora finalmente posso dire Padre nostro che sei nei cieli. Il vero Padre che voglio servire”. Pietro è sconvolto. Il Vescovo si alza, si avvicina a Francesco e lo avvolge nel suo mantello. In disparte c’è Donna Pica in lacrime, segue il marito allontanarsi dalla sala, furioso ed imbarazzato. Ad Assisi non si parla d’altro: come può un uomo ricco dare un calcio alle sue comodità e diventare povero per scelta? Io, Bartolomeo, sono povero per disgrazia, e come me, altri. Sono al primo gradino della scala sociale, il primo che si calpesta e di cui si può fare a meno. Francesco ha scelto di scendere questa scala per suo Padre celeste che nessuno ha mai visto. Il prete di San Damiano accetta volentieri l’aiuto di Francesco ed il mio, mi racconta che prima Pietro portava spesso Francesco in Francia per affari e così il ragazzo imparò il francese e sapeva di cantastorie, saltimbanchi e cavalieri. E poi, come a tutti i giovani, gli prese la fissa per le battaglie. Francesco riconosciuto nobile, fu fatto prigioniero e così si è salvato, merce di scambio per danaro agli aguzzini. Era nella prigione di Perugia, dove il vecchio prete andava a benedire i vivi e i morenti, dove d’inverno il freddo non riusciva ad entrare, ma d’estate il calore fa aumentare il tanfo, i topi, le pulci e gli scarafaggi. Oggi Francesco è tornato con tanti soldi, lo sguardo limpido, la voce decisa “Mi ha parlato e Lui vuole che questa chiesa sia bella! ” Lavorava dalla mattina alla sera a San Damiano. Ogni tanto si rifugiava in una grotta dietro la chiesa, a pregare, e spesso rifiutava il cibo perché preferiva continuare a pregare. Pregava e lavorava. L’ho visto chiedere l’elemosina, vestito con una tunica grezza, color terra, scalzo e senza borsa, ricevere del pane e distribuirlo a quelli più poveri di lui, che non possono aiutarsi da soli, i lebbrosi. Lavava loro le piaghe, sì perché andava spesso a trovarli, fuori le mura. La gente lo vede, conosce ogni sua mossa, l’hanno visto mendicare pane e pietre, aiutare i bisognosi; lo dicevano pazzo e ora non più. “Il Signore ti mostri il suo viso e ti dia Pace! ” dice alla gente con occhi di gioia. C’è una chiesa piccolissima giù lungo la piana, abbandonata, chiamata Santa Maria degli Angeli, e Francesco mi chiede di aiutarlo a sistemarla. È così piccola che la chiamano la Porziuncola, si dice che sia la preferita degli Angeli, che vengono a rendere omaggio alla Mamma di Gesù. Francesco vuole rimetterla a nuovo, a forza di muovere pietre le sue mani hanno calli ed il suo fisico si è irrobustito. Ora lì la liturgia c’è tutti i giorni. Francesco predica alla gente, con umiltà e dolcezza “La Pace sia con voi! , non parla di catastrofi, il suo sorriso coinvolge chi si ferma ad ascoltare. Un giorno un suo vecchio amico venne a trovarlo, barba e capelli ben curati, mantello ed abiti lussuosi, la gente lo riconobbe” È Bernardo Da Quintavalle! “, gridavano. Ora Bernardo, vestito come i suoi nuovi fratelli, tunica color terra, funicella ai fianchi, ha pietre in mano e mai stanco aiuta Francesco alla Porziuncola. Francesco, con la benedizione del Vescovo, predica il perdono e la conversione. La vita nuova di Francesco, dedicata al servizio e alla preghiera, contagia altre persone, li contai, erano dodici, sì, come gli apostoli di Gesù.
“Chiedete e vi sarà dato, non temete se vi chiuderanno la porta in faccia, se vi daranno serpi o topi morti, non inquietatevi perché il Padre che è nei cieli ci aiuterà. Pensate ai più bisognosi che non possono chiedere, dobbiamo farlo per loro, si deve aver vergogna di rubare e noi non lo facciamo”. Le mani di Francesco prendono uno ad uno i suoi compagni paurosi e dubbiosi. Ora Francesco e i suoi sono a Roma dal Papa per chiedergli il permesso di vivere la loro regola di vita nuova. Tutto ciò che hanno è in prestito, il nome, la tonaca, il loro stesso corpo. E il Papa ha concesso loro di predicare. Ora anche io sono con loro, in ginocchio, le risposte alle invocazioni mi escono spontanee dalla bocca e prego, prego Dio! Francesco vuole andare a Greccio, un paesino arroccato a qualche giorno di cammino da Assisi, per celebrare il Santo Natale. Partiamo con la terra ghiacciata sotto ai piedi e la neve dal cielo; alcuni di noi hanno una mantella calda sulle spalle, un asinello è carico di coperte e Francesco intona un canto con voce limpida. Attraversiamo un borgo, tre case in tutto, e siamo accolti in una stalla, calda, tra le bestie, è sera e per noi una tavola con latte, pane e vino. Somiglia ad un altare quella tavola, Francesco commosso, si fa il segno della croce e tutti dopo di lui, prende il pane e lo spezza, pronuncia brevi parole, distribuisce un pezzetto a tutti, e poi il vino. Eravamo seduti per terra uno vicino all’altro. Durante la cena Francesco spiega ad un uomo che vuole andare a Greccio per Natale per celebrare la nascita del Cristo. I suoi occhi luminosi, i piedi in movimento, quasi danzanti dalla gioia. L’indomani, con l’asinello carico di noci e vino, ci incamminiamo, la carovana ad ogni borgo aumenta di numero di persone. Domani è Natale! Ecco Greccio! I fuocherelli lungo le vie annunciano la sera, un uomo si avvicina a Francesco e gli indica un luogo poco distante. Comincia a nevicare e Francesco, abbassandosi il cappuccio, prosegue con passo sicuro, indicando di seguirlo, si forma una processione, con lanterne, semplici candele. Intona un canto alzando le mani al cielo e tutti lo seguono e poi si interrompe e si sente solo il canto del fuoco lì acceso. Il piccolo frate indica uno spazio dove qualcuno ha costruito una capanna di paglia e assi. La terra come pavimento e sulla paglia un bue e un asinello seduti, rivolti verso una mangiatoia che accoglie un fagotto. Un uomo anziano ed una giovane donna accanto alla mangiatoia. Uno inizia a cantare e da uno a due voci, si forma un coro. Francesco si inginocchia con le mani sulla paglia, le guance piene di lacrime di gioia, le stesse di tutti noi, sì, anche del mio volto! Finalmente piango di gioia, sono contento di essere qui. Un frate celebra la Santa Messa e Francesco intona il Vangelo, con voce tremante come alla sua prima messa. Nell’omelia prende in mano il fagotto e lo culla come se fosse un bambino, e ne spiega la nascita. La neve cade lenta, il fuoco illumina i visi assorti. In quella capanna lunghe ombre ballano tra le luci, in un intreccio di chiaro scuro. Ognuno di noi porta con sè Gesù.
t. r

HANNO LASCIATO UNA TRACCIA-Nelson Mandela

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“Nel corso della mia vita mi sono dedicato alla lotta del popolo africano. Ho combattuto contro la dominazione bianca e ho combattuto contro la dominazione nera. Ho amato l’ideale di una società democratica e libera in cui tutte le persone potranno vivere insieme in armonia e con pari opportunità. È un ideale che spero di vivere. Ma, mio signore, se necessario, è un ideale per cui sono disposto a morire”. Queste sono le parole pronunciate dal premio Nobel per la pace Nelson Mandela davanti alla Corte Suprema di Pretoria, nell’aprile 1964.
Mandela aveva 30 anni quando l’apartheid divenne Legge dello stato in Sudafrica. Era il 1948 e l’odiosa segregazione razziale, ispirata all’ideologia nazista, avrebbe segnato quasi tutta la sua vita. Mandela non ci sta e inizia un’attività di protesta per il pieno riconoscimento dei diritti civili degli appartenenti ai gruppi etnici non bianchi, diventando uno dei leader del movimento anti-apartheid. Per un curioso gioco del destino, il nome scelto per lui alla nascita dalla sua tribù è “Rolihlahla”, ossia “colui che crea problemi”. Mandela crea problemi e nel 1962 viene arrestato con l’accusa di sabotaggio e alto tradimento.
Ritenuto colpevole e condannato all’ergastolo, viene rinchiuso come prigioniero politico per 27 anni nel durissimo carcere dell’isola-prigione di Robben Island: un’isoletta davanti a Cape Town.
Tutti abbiamo sentito parlare di lui almeno una volta: liberato nel 1990 sotto la spinta di un movimento di opinione internazionale, da quella condanna che doveva essere per la vita, con le prime elezioni a suffragio universale del paese, nel 1994, Mandela primo presidente liberamente eletto del Sudafrica è il primo non bianco a ricoprire tale carica.
Nel 1995, agevolò la nascita di una Commissione per la verità e la riconciliazione che lavorò con l’obiettivo di raccontare tutto quello che era successo negli anni dell’apartheid. Fu un capolavoro politico che ha permesso al Sudafrica di lasciarsi alle spalle il suo ingombrante passato e di diventare uno dei paesi più civili e progrediti del continente africano. A chi gli chiedeva il perché della sua politica conciliante, Mandela era solito rispondere:
«Se vuoi fare pace col tuo nemico, devi lavorare col tuo nemico. Solo così diventerà tuo partner».

Quello che molti non sanno, però, è che anche Mandela ha portato il fazzolettone!
Nel 1977 l’associazione scout del Sudafrica iniziò ad accogliere nei vari gruppi sparsi per il paese giovani “di razza negra”, in contrapposizione all’Apartheid. Nel 1994, quando Mandela venne eletto presidente, accettò il ruolo di patrono dell’associazione e riconobbe il lavoro nella lotta contro la segregazione razziale.
Il 23 aprile 2004, ricevette il titolo di “Elefante Africano”: il massimo riconoscimento tra gli scout africani.
Una vita spesa al servizio di un ideale di comunità inclusiva, equa e democratica, che lascia una traccia di coraggio.
Significative sono le parole della celebre poesia di William Ernest Henley, che nei duri anni del carcere gli hanno dato la forza per non arrendersi. Si intitola Invictus (in latino “il mai sconfitto”) e nell’ultima quartina recita:
Non importa quanto stretto sia il passaggio, Quanto piena di castighi la vita, Io sono il padrone del mio destino: Io sono il capitano della mia anima.
Erica

Beauty and the city

Un tramonto; le vette delle montagne innevate che si stagliano contro un cielo turchino; un fiore che sboccia; la visione aerea di un fiume sudamericano mentre sparisce all’interno di un’infinita distesa smeraldo; una metropoli i cui grattacieli si mimetizzano col nero cielo della notte, dando l’illusione che le insegne al neon galleggino a mezz’aria.
Alcuni prodotti dall’uomo, altri frutto di madre natura, quelli che ho provato a descrivere con la mia umile prosa sono tutti comunque dei paesaggi che, convenzionalmente, sono definibili “belli”. C’è qualcosa in loro, vuoi che sia la semplicità della natura in atto o l’involontaria poesia nata dalla rigidità urbanistica, che affascina i nostri occhi, ci sprona calme e forse profonde riflessioni e soprattutto ci dona un senso di serenità.
Tutto l’opposto, insomma, di quella che spesso è la monotonia quotidiana. Ogni giorno i nostri occhi, sulla via per il lavoro o la scuola, sono infatti bombardati da cieli uggiosi o ancora rabbuiati, dal grigiore delle città e da cartelloni pubblicitari di dubbio gusto e, soffocati da tutta quella banalità, il nostro essere antimeridiano non può che reagire con una certa dose di scontrosità mattutina, la quale viene poi soffocata dal torpore che a forza si rimpossessa dei nostri corpi o viene sfruttata per incominciare fin da subito a ragionare sulle questioni che dobbiamo affrontare nell’arco della giornata.
Se davvero le uniche bellezze percettibili dall’uomo fossero quelle esplicite e spettacolari descritte nel primo paragrafo, l’unico modo in cui l’umanità potrebbe sopravvivere sarebbe attraverso un abbonamento perenne allo speciale fotografico del “National Geographic”, e la sua perpetua lettura. Per fortuna dell’umanità, e con buona pace della rivista scientifica americana, le cose non stanno così. Capita infatti che nell’arco della giornata la situazione migliori, ci si trovi più svegli, più disposti ad affrontare le bruttezze del mondo ed addirittura, ma proprio se si è fortunati, a percepirsi vagamente ottimisti.
Se non le fotografie spettacolari, però, cos’è che, all’apparenza inavvertitamente, riesce a darci le stesse sensazioni che la bellezza è in grado di darci? Esiste forse una bellezza surrogato?
La risposta, ovviamente, è no. Ma anche sì.
Non si tratta infatti di un mero surrogato, ma di bellezza vera e propria: quella proveniente dalle piccole cose e, soprattutto, dalle persone.
Il sapore del caffè mattutino, passare una serata tranquilla col proprio amato, incontrare i propri compagni sull’autobus, scambiarsi quattro chiacchiere prima di entrare in classe, parlare coi colleghi di quello che si è fatto la sera prima, rendersi conto che davanti all’edificio dove stiamo tutti i giorni c’è ancora un albero sano e vitale.
L’effetto sugli occhi di tutto quello descritto sopra è sicuramente meno d’impatto delle foto naturalistiche, ma la sensazione che ci lascia dentro è altrettanto, se non ulteriormente, potente. Soprattutto quella nata dalle persone, perché quando qualcuno incomincia a condividere con noi la bellezza che si porta dentro, per una strano principio di vasi comunicanti emotivi, anche noi finiamo con l’aprirci e condividere la nostra bellezza interiore con lui finendo col migliorarci reciprocamente la giornata e, forse, anche un po’ la vita.
Tricheco birbante

Clan KYPSELE: Referendum costituzionale e le sue conseguenze

Ci sono molti elementi in ambito politico che generano svariate discussioni, ma in queste ultime settimane l’evento che ha creato più discussione è sicuramente il referendum consultivo del 22 ottobre che ha avuto come oggetto la possibilità  di intraprendere le iniziative istituzionali necessarie per richiedere allo Stato l’attribuzione di ulteriori forme di autonomia, con le relative risorse e competenze (istruzione, ricerca, tutela della salute, ambiente e coordinamento della finanza pubblica). Il referendum è detto consultivo proprio perchè con la maggioranza dei voti non ci sarebbe un’attuazione immediata di queste autonomie, ma semplicemente l’avviamento di un processo all’interno del governo, che porterebbe a un’approvazione o no della cosa. La richiesta di autonomia è legata all’articolo 16, III comma. In totale il referendum è costato circa 50 milioni di euro. Per il voto non è stato necessario un quorum (ovvero una cifra precedentemente stabilita che deve essere superata dal numero di voti) infatti solo il 38,3% dei cittadini lombardi ha votato, e di questi il 95,3% ha votato sì. Cosa dunque è successo dopo il fatidico voto? In seguito all’esito del referendum gli organi di governo lombardi si sono impegnati a dialogare e ad intraprendere una discussione con il governo nazionale al fine di ottenere l’autonomia in diversi aspetti dell’amministrazione regionale, purtroppo senza giungere ancora ad una conclusione accettabile da entrambe le parti. Tuttavia entrambe le parti hanno comunicato di voler chiarire i vari punti proposti e di voler giungere ad un compromesso che veda sia lo Stato Italiano che la Regione Lombardia avvantaggiata.

Yak frenetico

Antilope effervescente

Riccio vivace

Donnola fidata

La Bellezza sta dentro, come un elefante divorato da un serpente

La bellezza è una qualità  che solo in pochi hanno, quella sensazione in cui una persona ed un’altra riescono a condividere lo stesso pensiero e farlo capire all’altro reciprocamente è davvero bello. Voi penserete: “eh no caro mio, quello è amore!” No, mi dispiace amore è un’altra cosa: la bellezza è quello che hanno dentro le persone non il fatto che uno è magro o in carne. Se vogliamo possiamo vedere la bellezza in tutti, ma quella vera non si capterà  mai con l’intuito o con gli occhi. La bellezza è in un gesto non nei capelli, la bellezza è in una scelta non lo smalto sulle unghie e soprattutto la bellezza è nel credere negli amici, fidarsi e non farli soffrire. Ricordatevi una cosa, per vedere la bellezza bisogna guardare il mondo con occhi diversi, la vera bellezza. Non dimenticate: “l’essenziale è invisibile agli occhi”.

Caicco Ostinato