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Hanno lasciato una traccia

dianaGiuseppe Diana nasce a Casal di Principe da una famiglia di proprietari terrieri.
Nel 1968 entra in seminario, vi frequenta la scuola media e il liceo classico. Poi intraprende gli studi teologici nel seminario di Posillipo. Qui si licenzia in Teologia biblica e poi laurea in Filosofia alla Federico II.
Nel 1978 entra nell’Associazione Guide e Scouts Cattolici Italiani dove fa il caporeparto.
Nel 1982 è ordinato sacerdote. Diventa Assistente ecclesiastico del Gruppo Scout di Aversa e successivamente Assistente del settore Foulards Bianchi.
Dal 19 settembre 1989 era parroco della parrocchia di San Nicola di Bari in Casal di Principe.
Insegnava anche materie letterarie presso il liceo legalmente riconosciuto del seminario Francesco Caracciolo, nonché religione cattolica presso l’I.T.I.S. Alessandro Volta di Aversa.
Don Giuseppe Diana fu ucciso dalla camorra il 19 marzo 1994 nella sua chiesa, mentre si accingeva a celebrare Messa.
La sua morte non è stata solo la scomparsa di una persona vitale, di un capo scout energico, di un insegnante generoso, di un testimone d’impegno civile: uccidere un prete, nella sua chiesa mentre si accingeva a celebrare Messa è diventato l’emblema della vita, della fede, del culto violati nella loro sacralità. È stato il simbolo dell’apice cui può giungere la barbarie camorrista sui nostri territori. Il messaggio, l’impegno e il sacrificio di don Giuseppe Diana non possono essere dimenticati.
Uno dei suoi testamenti spirituali è il documento contro la camorra “Per Amore del mio popolo” scritto nel 1991 insieme ai sacerdoti della Forania di Casal di Principe: un messaggio di rara intensità e, purtroppo, di grande attualità.
Non dimenticare don Giuseppe Diana significa non solo ricordarlo per quello che era, ma soprattutto testimoniare quotidianamente il suo messaggio d’impegno civile, di lotta alla criminalità organizzata, di costruzione di giustizia sociale nelle comunità locali, d’amore per la propria terra.

Chi di LEGO ferisce…

Ciao a tutti cari amici ed amiche e bentornati sulla nostra rubrica di generazione X.
Di solito quando narriamo un aneddoto, e soprattutto se vogliamo dargli una morale o trasmettere con esso un insegnamento, noi che lo raccontiamo ci troviamo nella parte dei protagonisti.
Questo serve per creare un effetto di emulazione, sperando che l’ascoltatore (o, in questo caso, il lettore) si senta spronato ad agire come abbiamo fatto noi, conscio del fatto che una persona vera, fisicamente presente davanti a lui, ha davvero compiuto le azioni che gli sono state raccontate.
Un altro motivo è che questo genere di narrazione fa sì che colui che ascolta (o legge) riesca più facilmente ad immaginarsi la situazione, e se ne senta più immerso. Quante storie dell’orrore, dove l’immedesimazione è fondamentale, iniziano con qualcosa come “alcuni ragazzi della nostra età…” se non addirittura dovete sapere che un giorno, mentre camminavo in un bosco… “!
Eppure, nonostante tutti questi trucchi narrativi, stavolta non sarò io l’eroe della nostra storia, ma piuttosto colui che sì compie molte azioni in essa, ma che alla fine ne subirà tutte le conseguenze, e soprattutto la morale.
E siccome quello che sto per raccontarvi è personale e riguarda cose di cui un po’ mi vergogno, dimenticatevi tutto quello che ho scritto prima e ripetetevi che nella storia non ci sono io, ma un amico di un amico, o che io ve la sto raccontando ma in realtà io l’ho saputa dallo zio della cugina del fabbro del terzo cugino di ottavo grado del mio idraulico.
Fatto? Bene! Iniziamo la narrazione.
Molti di voi lettori si trovano probabilmente ancora in quella fase beata della loro vita fatta di spensieratezza e pomeriggi passati a casa di amici comunemente denominata “infanzia”.
A volte sembra difficile immaginarselo ma tutti, in un modo o nell’altro, hanno avuto un’infanzia e, quella del vostro qui presente è avvenuta, più o meno, ad inizio duemila.
Era un’epoca diversa e ancora un po’ confusa, contraddittoria e talvolta insicura.
Un’epoca in cui tutti credevano che Bill Gates avesse inventato internet da solo, in cui nei film d’azione non si poteva far vedere palazzi che crollavano per via di un certo fattaccio accaduto ad inizio millennio ed in cui tutti credevano davvero, anime sciagurate, che i videofonini fossero una buona idea.
Uh? Cos’è un videofonino? Ecco, appunto.
A quell’epoca, ogniqualvolta avessi un pomeriggio libero, a prescindere che il clima fosse caldo come su Venere o freddo come su Plutone, io ero solito inforcare la mia bicicletta e pedalare fino a casa di un mio carissimo amico, dove poi avremmo giocato fino ad essere esausti.
Uno dei giochi che preferivamo erano i LEGO. Non che costruissimo chissà quali cose, la parte più divertente era mettere insieme quattro pezzi, due personaggi, e poi lasciare che tutto il resto lo facesse l’immaginazione.
Certo però che la collezione del mio amico era bella. Molto bella. Aveva tanti, ma tanti pezzi che gli invidiavo tantissimo. E così, sapete cosa ho iniziato a fare?
Incomincio a rubarglieli.
Che, detta così magari alle persone più mature un furto del genere, tra bambini, sembrerà risibile, ma io ci tengo a ricordare che, comunque la si voglia mettere, stavo rubando ad un amico. Un amico che si fidava, e stavo tradendo la sua fiducia.
E sappiamo bene dove finiscono, almeno secondo l’idea dantesca, i traditori di quelli che si fidano.
Inutile dire che mi feci sgamare praticamente subito e che il mio amico, infuriato, smise di parlarmi per settimane. Pentito, provai più volte a chiedergli scusa, ma ormai sembrava che il nostro rapporto si fosse rotto per sempre.
Eppure un giorno, mentre sono all’oratorio, ecco che questo mio amico mi si avvicina e mi dice: “ciao”.
Che belle che furono quelle parole, e quanta speranza mi diedero! Ancora oggi non so cosa abbia spinto il mio amico a perdonarmi, se solo il suo buon cuore o forse il fatto che il sangue (perché i nostri amici più cari diventano ad honorem membri della famiglia, almeno per me) sono più densi dell’acqua.
E la cosa più bella, è che siamo amici tutt’oggi.
A conclusione di questo articolo sulla misericordia, voglio solo augurarvi, quando magari vi capiterà di trovarvi in una storia come questa, di essere nella parte del mio amico.

 
Tricheco birbante

La misericordia

La misericordia è un sentimento generato dalla compassione per la miseria altrui (morale o spirituale). Tale termine deriva dal latino misericors (genitivo misericordis) e da misereor (ho pietà) e cor -cordis (cuore). È una virtù morale tenuta in grande considerazione dall’etica cristiana e si concreta in opere di pietà o, appunto, di misericordia.

Questo è ciò che ci dice la nostra carissima Wikipedia.
Per spiegare il significato che questa parola ha per me, vi racconto un’esperienza di noviziato fatta qualche week-end fa.
L’uscita del 28 febbraio è stata dedicata ai ciechi dato che volevamo provare esperienze diverse da quelle che abbiamo sperimentato nelle domeniche e nei pernotti precedenti.
Ovviamente il tempo era contro di noi, ma un buon scout sa come attrezzarsi!
In mattinata, stando in sede dopo la messa, abbiamo cominciato ad approcciarci al mondo dei non vedenti con attività preparate da due nostri compagni di avventure.
Ebbene sì, un certo signor M ed una certa signora E, come prima cosa ci hanno fatto ascoltare un brano. La protagonista era una ragazza che aveva perso la vista.
Noi abbiamo chiuso gli occhi, abbiamo spento le luci, abbiamo ascoltato la sua voce e tramite essa ci siamo immedesimati.
Questa ragazza, il cui nome era indefinito, raccontava di una sua normalissima giornata al mare. Ovviamente non descriveva ciò che vedeva con gli occhi; ma ciò che vedeva con le orecchie, con il naso e con il tatto: ci ha fatto capire quanto noi, vedendo le cose, a volte ci dimentichiamo di avere altri quattro sensi.
Una dimostrazione è stato il rumore che producevano le onde infrangendosi sulla spiaggia, il verso dei gabbiani, la temperatura che diminuiva con il tramonto ed aumentava con l’alba, il suono armonioso di una chitarra e le emozioni che tutto ciò riusciva a scatenare in questa ragazza.
E’ stato un momento splendido, mi sembrava di essere sulla spiaggia accanto a questa nostra amica che ci raccontava ciò che lei purtroppo non poteva vedere. Sentivo l’odore e il rumore del mare come quando annusi e porti all’orecchio una conchiglia trovata sulla sabbia. Sentivo la brezza sulla pelle e il verso dei gabbiani. Quante cose si possono vedere anche se si è non vedenti, quanti colori, quante emozioni, quanta gioia anche in una cosa così triste.
Finito questo momento ci siamo bendati tutti, ed i due organizzatori della giornata hanno fatto dei rumori con degli oggetti e noi per alzata di mano dovevamo capire che cosa fosse. Porte che sbattevano, sedie trascinate, penne sbattute sui quaderni di caccia, chiusura della cover del telefono, rumore di pagine di giornale sfogliate…
Successivamente ci siamo divisi in gruppi da tre e dovevamo mettere in atto una scenetta totalmente inventata da noi nella quale dovevamo far capire ai nostri compagni bendati, attraverso un narratore e degli attori che producevano i rumori di ciò che stavano recitando, ciò che la nostra scenetta prevedeva.
Dopodiché abbiamo fatto un gioco, ma ovviamente sempre in tema: mosca cieca!
La prima mosca è stata Luca che dopo un po’ di tempo e qualche testata al muro del porticato è riuscito a prendere Pier. Poi abbiamo continuato a giocare fino all’ora di pranzo.
Nel pomeriggio abbiamo preso un “ciuf ciuf” e siamo andati a Milano per partecipare al “percorso al buio”.
Per chi non c’è mai stato è un posto dove si può vivere un’esperienza da non vedente.
Prima di tutto ciò, però non può mancare l’aneddoto divertente della giornata.
Marco ha preparato un bella “Lista dei monumenti” che Luca Deveronico e Alex avrebbero dovuto visitare, mentre tutti gli altri facevano il percorso (una specie di caccia fotografica). Ovviamente pioveva quindi immaginate la gioia sul volto di Luca e di Alex che dovevano farsi questa bellissima attività alternativa. Abbiamo riso per tutto il resto della giornata pensando alle loro due facce che tramutarono dallo stupore, alla rabbia e alla tristezza!
Dopo di che ci siamo divisi in due gruppi e abbiamo iniziato l’attività.
La guida del nostro gruppo era Nevina. Ci ha dato dei bastoni per non vedenti e poi siamo entrati. Era tutto completamente buio, non si vedeva nulla.
Quando i nostri occhi si sono abituati alla situazione abbiamo cominciato seguendo le indicazioni di Nevina, che era l’unica a sapersi orientare alla perfezione.
All’inizio era un po’ spaventata, ma la nostra guida è stata in grado di mettermi a mio agio in pochi minuti e di farmi rilassare.
Nella prima stanza ci siamo trovati in un bosco. Si sentiva profumo di terra, di sottobosco e di muschio. L’aria era umida, il pavimento coperto da sassi. Abbiamo annusato delle piante che siamo riusciti a riconoscere come l’alloro, la lavanda e il rosmarino. Abbiamo toccato un ruscello e delle rocce umide.
Abbiamo fatto anche un giro in barca!
Nella seconda stanza eravamo in una camera e dovevamo cercare dei mobili. Io ho trovato un divano, un comodino, un armadio e uno specchio.
Poi ci siamo radunati tutti attorno ad un tavolo rotondo e Nevina ci ha fatto riconoscere altre spezie: cannella, origano e chiodi di garofano. Poi ci ha fatto toccare degli animali giocattolo e noi dovevamo capire quale fosse. Io avevo l’ippopotamo, sarà una coincidenza?
La terza stanza simulava una strada. C’era tanto rumore, quasi dava fastidio.
Rumore di clacson, di macchine che sfrecciavano, di moto e di persone che parlavano. Rumore di treni sulle rotaie.
In quel momento ho avuto paura.
Mi sono immedesimata in una persona non vedente che deve affrontare tutti i giorni un caos del genere.
Io non ci ho mai fatto caso perché prima di attraversare la strada posso guardare a destra e a sinistra, perché prima di attraversare sulle strisce pedonali, davanti ad un semaforo, so se esso è verde, giallo o rosso. Perché so che un giorno potrò guidare la macchina e forse sentirmi un po’ più sicura per strada. Perché posso vedere quando sta per arrivare un treno o una metro e so quando si sta avvicinando un pullman.
Capisco che terrore possa provare una persona non vedente tutte le volte che esce dal cancello di casa.
Posso immaginare l’ansia che provi quel soggetto e purtroppo la tristezza magari nel non poter vedere con gli occhi ciò che vede con altri sensi. Ma ogni cieco, come dice Nevina, sogna. Perché ha tutto un modo suo di immaginare i colori, le forme degli oggetti, la faccia che una persona che sta parlando potrebbe avere.
L’ultima sala è un bar e tu puoi ordinare quello che vuoi. Arianna, la barista, mi ha dato un succo di frutta all’albicocca e ha preparato un caffè alle altre persone che erano con me, ed è non vedente.
Ci siamo seduti al tavolo e abbiamo avuto la possibilità di fare tutte le domande che ci venivano in mente a Nevina.
La prima cosa che le ho domandato era se lei fosse non vedente e lei mi ha risposto che è nata ipovedente (era in grado di vedere solo le ombre), ma che ora non vede quasi più neanche quelle.
Le ho chiesto anche qual è la cosa più difficile che fa ogni giorno e le esperienze più belle che ha vissuto.
Per la prima domanda ha risposto che in realtà ogni cosa che fa tutti i giorni è difficile. Anche già solo l’alzarsi dal letto. Ha detto che ora è in grado di cucinare le cose più semplici come un piatto di pasta al sugo, ma che per le cose più complicate fa fatica, sta ancora imparando insomma.
Ha fatto diverse esperienze che probabilmente quasi nessuno farebbe anche vedendoci benissimo: parapendio, paracadutismo, sci d’acqua e tante altre attività adrenaliniche.
Mi ha colpito la gioia che mi ha trasmesso questa ragazza di trent’anni, il calore della sua voce, le emozioni che è stata in grado di farmi provare e l’allegria che ci ha messo nel farci percorrere questo viaggio che è durato un’ora e mezza.
Anche se non ho mai visto la sua faccia, perché ci ha lasciati prima che potessimo vedere di nuovo, so che ha sempre parlato con il sorriso stampato sul volto, perché quando una persona sorride mentre parla si nota la differenza.
Ho capito grazie a questa esperienza quanta fatica faccia una persona non vendente e quanto debba concentrarsi per ascoltare la voce di una persona che guidi i suoi passi, e vi assicuro che nella durata del percorso ho preso trentadue spigoli con il mignolo del piede, almeno tre muri in faccia, avevo la sensazione di entrare da una porta girare in tondo e riuscire dalla stessa parte e ho preso più gomitate in faccia dagli altri ragazzi in un’ora e mezza che in quasi un anno di attività insieme.
È stata un’esperienza che mi ha lasciata a bocca aperta e forse toglierei come parole che principalmente ci vengono in mente associate alla misericordia come pietà e compassione.
Per me questa giornata ha permesso ad ognuno di noi di portare la luce a chi non ce l’ha e ha insegnato a noi che forse dovremmo un po’ crescere e smetterla di avere paura del buio.

È una buona lezione quella di questa mostra che apparentemente non mostra e che, invece, insegna, a noi fagocitati delle immagini, anche il valore del buio per vedere davvero la realtà.”

 
Tigre energica

Un’esperienza diversa

Lo scorso pernotto i nostri capi ci hanno fatto provare un’esperienza nuova: un pernotto divisi maschi e femmine. Il pernotto è iniziato come tutti gli altri: abbiamo preso il treno con gli enormi zaini e siamo scesi a Varese sicuri che di lì a poco avremmo avuto indicazioni su dove andare, ed invece… ci siamo trovati su un pullman. Il viaggio è stato rilassante.
Appena arrivati alla nostra meta le ragazze sono scese da un lato e i ragazzi si sono avviati verso l’altro lato della strada. Così, su due piedi, pensai a due cose:
1) che i capi pensassero di dividere maschi e femmine per arrivare al punto lungo strade diverse;
2) farci fare un pernotto separati.
La seconda fu la risposta esatta.
Infatti i due capi rimasti con noi ci spiegarono che questo pernotto lo avremmo vissuto solo tra ragazze. Ci diedero una cartina per squadriglia, sulla quale abbiamo facilmente localizzato la destinazione ma poi, con grande sorpresa, ecco che ci veniva distribuita un’altra cartina uguale alla precedente con lo stesso punto da localizzare. Ci dissero che ci avrebbero diviso in quattro gruppi in cui avrebbero mischiato tutti i componenti delle due squadriglie. Una volta formati i gruppi ne mandarono uno alla volta verso la strada che sembrava loro più giusta. Il mio gruppo partì per ultimo e, essendo tutte del primo e secondo anno, si agganciò a noi un capo.
Il cammino fu abbastanza breve e all’arrivo ci aspettava un posto molto caldo e una buona cena da consumare.
Infatti ci era stato detto di portare ognuna qualcosa da mangiare per fare una buona cena condivisa. È stato un momento piacevole.
Finito il pranzo ci siamo riunite e abbiamo parlato dell’impresa di reparto: ci sono stati distribuiti due blocchi di fogli, il primo personale e il secondo di squadriglia, su cui avremmo scritto, da lì in avanti, i progressi dell’impresa. Dopo aver parlato e discusso su alcuni punti dell’impresa che non erano molto definiti abbiamo iniziato a giocare.
Il gioco era molto semplice: dovevamo cercare in giro per la città 8 bigliettini. Essendo la città molto piccola ci fu facile orientarci e, in poco tempo, ci preparammo alla caccia ai bigliettini nascosti!
La ricerca è stata più difficile del previsto e in mezz’ora avevamo trovato un solo bigliettino su 8.
Alla fine, con un po’ di fortuna siamo riuscite a trovare tutti i bigliettini e a passare alla fase successiva del gioco: salire fino ad una chiesetta e ammirare il fantastico panorama notturno che si estendeva sotto di noi. C’era molta pace e serenità e sembrava quasi di volare. C’erano un sacco di luci di case illuminate e sembravano tante lucciole in basso oppure centinaia di stelle in cielo…
Il gioco era ufficialmente finito e, anche se avevamo perso, avevamo guadagnato un posto che resterà indelebile nella mia memoria. Tornate all’oratorio abbiamo pregato e ci siamo tuffate nei sacchi a pelo pensando a cosa avremmo fatto il giorno seguente.
Verso le 11 eravamo già arrivati in chiesa a Porto Ceresio e c’eravamo riuniti con i ragazzi arrivati a piedi da Viggiù. Dopo la messa ci hanno comunicato che saremmo andati alle trincee. Ci siamo arrivati con una camminata che ci è sembrata lunga e faticosa (e con qualche scivolone), abbiamo mangiato e ci siamo raccontati a vicenda, tra ragazzi e ragazze, che cosa avessimo fatto.
La siesta è stata un momento per avventurarci da soli nelle trincee: avete mai visto qualcosa che era stato usato in modo spaventoso ma la cui vista non può che essere meravigliosa?
Era la prima volta che provavo questa sensazione, forse perché era la prima volta che vedevo una trincea.
Dopo la siesta c’è stato un momento dove tutto il reparto ha visitato ben due trincee!
I capi, inoltre, avevano organizzato un gioco che si svolgeva dentro le trincee: consisteva nel cercare un cartellone nei bunker in cui si erano nascosti i capi e scriverci il proprio nome, ma c’era una difficoltà: i capi, ogni tanto, “sganciavano delle bombe” e, se ti trovavi in quella zona di galleria, perdevi la vita, che era un bicchiere di plastica allacciato al collo. Ma non era tutto: per rendere il gioco ancora più complesso c’era la questione che i membri delle altre squadriglie potevano romperti la vita e, finché non te ne procuravi un’altra, non potevi scrivere il tuo nome sui cartelloni.
Il gioco è stato molto bello e, stancamente, alla fine abbiamo ripreso i nostri zaini e siamo andati in stazione prendere il treno.
La giornata si è conclusa con la preghiera e i saluti.
Questo pernotto lo ricorderò bene perché è stato il primo che ho passato solo tra ragazze.

 
Laura Merlo

Italia sì: una pizza in compagnia

pegasoemigranti“Da quanto tempo sei in Italia?”, chiedo al mio passeggero, con un occhio a lui e un occhio alla strada circondata del buio di dicembre. Mi guarda per dirmi che non ha capito, così scandisco “Tu, da quanto qui?” aiutandomi con qualche gesto. “Sei mese”, risponde, incerto sulla pronuncia.
Viene dal Senegal, questo è il suo primo inverno, non aveva mai conosciuto questo freddo.
Lo sto riaccompagnando a casa, o meglio, alla “struttura d’accoglienza” che ospita lui, i due che se ne stanno silenziosi sul sedile posteriore e la trentina di migranti di varia provenienza con cui abbiamo passato la serata.
Abbiamo fatto la spola con le macchine da Fagnano Olona all’oratorio del Gerbone, dove il Reparto Pegaso è giunto a piedi e non ci siamo messi a fare troppi discorsi, anche per il banale motivo che, della nostra strana compagnia di ospiti, pochi parlavano inglese e quasi nessuno italiano: due campi, due palloni… Giocare a calcio o a basket con quei ragazzi è stato, quantomeno, insolito. La loro enfasi, la loro voglia, sembrava incontrastabile (tiravano certe cannonate!), ma è comprensibile se si pensa che molti di loro, non avendo ancora un lavoro, non possono fare altro che starsene nel “recinto” di quella casa che in certi momenti può sembrare una prigione. Nei loro tiri c’erano settimane o mesi di voglia di correre.
pegasoemigranti2A questo punto, rotto il ghiaccio, la confidenza è stata raggiunta nel modo più efficace dai tempi di Adamo: seduti in cerchio davanti al cibo!
Pizze, per l’esattezza, perché se si fa una cosa la si fa bene!
È stato a questo punto che i nostri nuovi amici, con un po’ di inglese o francese o con gesti o con amici che traducevano il portoghese o chissà quale altra parlata, hanno iniziato a raccontarci chi erano: ragazzi di vent’anni, o poco meno o poco più, che avevano sogni e vite lasciate dall’altra parte del mare in cambio di qualcosa che non hanno ancora trovato. C’è uno studente di economia che avrebbe voluto lavorare in banca, un poliglotta dalle cinque lingue, un panettiere che, semplicemente, non ce l’ha più fatta…
Storie dalle radici lontane, ma che, raccontate così, mostrano qualcosa di brutalmente vicino a noi.
Ragazzi come noi, solo da un’altra parte.
I lampioni illuminano la strada, scacciando la nebbia dei campi. Dentro la macchina aria calda e silenzio: silenzio, il mio, di chi avrebbe tanto da chiedere; silenzio, il loro, di chi non riesce a parlare.
Quando ci congediamo ci stringono le mani e ci ringraziano con i sorrisi bianchissimi. Capiamo che non è per le trenta pizze, ma per i due palloni…

 
Geco Coinvolgente

Quali fonti e quale acqua

A chi capita di andare in montagna, succede di trovare lungo il cammino diverse fonti d’acqua. Io diffido sempre da quelle facilmente accessibili: più sono in alto, più mi sento sicuro nell’abbeverarmi. Non sappiamo cosa potrebbe aver inquinato la fonte che ci troviamo dinnanzi: un animale morto poco più sopra potrebbe aver imputridito l’acqua; magari l’acqua ci pare limpida, ma qualche batterio invisibile la contamina.
Più in alto della sorgente non c’è nulla: il rischio di avvelenarsi si riduce.
Ecco, per un giovane capo (o meglio, “adulto in formazione” per l’AGESCI) la possibilità di dissetarsi con acqua non buona nei momenti di “sete educativa” non è così remota.
Anzitutto ci sono i nostri ricordi ed esperienze: in mancanza d’altro, ciò che viene più spontaneo è offrire ai ragazzi quanto noi abbiamo vissuto, nell’illusione che “se è servito a me, servirà anche a loro”; i ragazzi di oggi, tuttavia, non sono i ragazzi di ieri e non saranno quelli di domani. Ad ogni anno i propri strumenti e le proprie attività, nella continuità del metodo.
Poi ci sono i “maestri di oggi” che ti vendono qualche strana pozione etichettata “risultato garantito”. Verrebbe da dire con B.-P.: “cucù e ciarlatani”!
Infine ci siamo noi: con le nostre idee e profonde convinzioni; pensiamo, a volte, di essere gli unici con quella trovata geniale che salverà il branco dalla noia, il reparto dall’incompetenza, il clan dall’indifferenza e ci dimentichiamo che non possiamo darci da bere da soli; l’episodio di Gesù e la samaritana al pozzo (Gv 4,7-26) ci ricorda questa verità: la misericordia di Cristo ci attende per dissetarci con acqua pura che zampilla.
Come placare la nostra “sete metodologica”, allora? La strada, ancora una volta, ci è indicata dal caro don Andrea Ghetti nel piccolo ma penetrante libro “Al ritmo dei passi” (p. 121): “AD FONTES!”, andare alla fonte! Dice Baden: “Noi preferiamo le acque fresche e sorgive: noi seguiamo una traccia, quella di un uomo scopritore in modo eccezionale e magistrale del cuore e dei bisogni dei giovani”. Si potranno realizzare molte cose, rispettabilissime, ma non si fa Scoutismo se non si seguono le fondamentali direttive del fondatore.
Per questo conoscere i testi di B.-P. è di vitale importanza per il capo e per lo Scoutismo: “vitale” nel senso proprio di legato alla vita; alla vita dello Scoutismo, perché rimanga integra, perché non abbia deviazioni; alla vita del servizio attivo del capo -mediamente troppo corta- perché non perda la freschezza e la passione.
Mi si perdoni se il mio sguardo è limitato alla nostra Associazione, ma in AGESCI è lo stesso Patto Associativo (cui ogni capo deve aderire) a rinviare agli “scritti e alle realizzazioni pedagogiche di Baden-Powell”. Lo stesso B.-P. rileggeva “Scoutismo per ragazzi” una volta all’anno: ci crediamo migliori di lui? Fuggiamo, dunque, pozze e stagni e domandiamoci sempre (in particolar modo durante quest’anno santo): quali fonti e quale acqua?
Carlo Maria

Che cos’è la misericordia?

La misericordia è un sentimento di comprensione. Per esempio: mia sorella voleva i miei elastici ed io invece di arrabbiarmi l’ho compresa ed ho capito che anche lei ne aveva bisogno, oppure i ladri che vanno a rubare nelle case ma non per piacere ma per problemi economici. Se a me entrassero i ladri in casa mia non gli aprirei la porta, ma li comprenderei perché credo che sia l’ultima cosa che vorrebbero fare, il rubare. Ed anche i profughi, che vorrebbero rimanere nel loro paese ma non possono ed io sento dire da molte persone: “che se ne stiano a casa loro” però non possono ed intanto ci sono mamme e bambini che vengono con dei gommoni, ed ovviamente anche papà, che muoiono. Se pensassimo di essere noi quelle persone che muoiono nel mare attraverso tante peripezie per venire qui a salvarsi e sono senza cibo e senza niente…
SECONDO ME LA MISERICORDIA È IL CONTRARIO DELL’INVIDIA; IO PENSO PRIMA DI CRITICARE GLI ALTRI: “SE IO FOSSI NEI LORO PANNI COME MI SENTIREI?”.
Chiara Fazio

La mia vita agli scout

Gli scout ti danno molte possibilità come amicizia e fedeltà, poi molto altro ma sopratutto queste due perché l’amicizia è avere qualcuno che ti sta accanto, è fedeltà e verità: quando io ho fatto la promessa ero molto emozionata, ma ora che sono diventata grande so che essere scout è una grande possibilità.
Ho passato tre anni negli scout e non mi sono mai sentita sola e so che potrò contare sempre su di loro.
Quando sono entrata negli scout ero spaventata e volevo andarmene subito, ora invece quando i miei genitori mi vengono a prendere vorrei restare sempre lì.
QUESTA È LA MIA VITA AGLI SCOUT.
Alice Fazio

Ogni uscita un’avventura

Ciao mi chiamo Riccardo e sono un lupetto del branco Tikonderoga. Sono quasi sei anni che sono uno scout e quando Akela mi ha chiesto di scrivere qualcosa sulle esperienze che mi sono piaciute di più. Beh, ragazzi, scegliere quali non è stato facile.
In questi anni ho vissuto mille avventure grazie agli scout. Uscite con il mio branco con la pioggia e con il sole, in tanti e in pochi, stanchi e non. Ma sempre insieme.
Se proprio proprio devo sceglierne due ecco…
Un weekend, per il pernotto di carnevale siamo andati alla casa madre delle suore dove ci siamo travestiti da molte cose: mangia animali, militari, streghe ecc… abbiamo fatto un sacco di giochi perfino all’aperto e sotto la pioggia! Ragazzi come mi sono divertito!
Un’altra invece è quando siamo andati al museo della scienza e della tecnica a Milano, dove abbiano visitato il sottomarino e abbiamo visto un sacco di animali preistorici e non; questa esperienza mi è piaciuta un sacco, anche perché io adoro gli animali.
Queste sono le esperienze che ricordo di più ma come dicevo prima, ogni uscita con il mio branco è un’avventura, fatta di giochi e di risate, di litigi e nuove amicizie.
Il mio branco è un po’ una famiglia allargata perché si sa… scout si è per sempre.
Riccardo