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La leadership nel reparto

13-2Lo chiamano “repartismo” per distinguerlo dallo “scoutismo” (o “scautismo”, in italiano desueto) in generale, dal “lupettismo” (che poi, perché “coccinellismo” non si sente mai?), roverismo e castorismo. Il “capismo” non esiste, e questo dovrebbe mettere la parola <FINE> sui discorsi di chi vede la Comunità Capi come una quarta branca (ma quarta o quinta?). L’idea del reparto (o “riparto”, sempre in italiano desueto), si è evoluta parecchio da quando è stata inventata più di un secolo fa. Per di più non si è mutata su una strada singola, ma il Metodo del reparto ha preso strade diverse diramandosi, allontanandosi e riavvicinandosi di volta in volta all’idea originale che, ad oggi, sarebbe quasi difficile spiegare.
Fatto sta che mi è capitato di sentire più volte discutere riguardo a quella che dovrebbe essere una delle massime che guidano proprio lo scoutismo in generale: “Ask the boy”. Il problema delle massime è che sono molto ispiranti, ma a volte lo sono troppo perché, invece di indicare una strada, mostrano un orizzonte. Ecco così che, quando ragioniamo sull’ask-the-boy powelliano, è come se contemplassimo un panorama dall’alto di un monte, ma senza avere una destinazione. In fondo i nostri boys (che, graziaddio, sono anche girls) sono dei mondi su cui noi capi gettiamo il nostro sguardo.
A questo punto il rischio dell’ask-the-boy “a prescindere” è quello di delegare scelte e (peggio che peggio) responsabilità ai nostri fratellini e sorelline. Un rischio per un capo e un peso non dovuto per un bambino o un adolescente. L’ask-the-boy è uno strumento, non un modo di fare. Al contrario l’impresa, ad esempio, non è uno strumento ma un modo di fare. Quindi il geniale, portentoso e rivoluzionario ask-the-boy non ci dice come guidare i ragazzi e ragazze che ci sono affidati, ma ci dà un potente strumento di attenzione, ascolto e partecipazione, ma non necessariamente di democrazia, si badi bene!
Allora come si fa? Se questo è un mezzo, qual è il modo?
13Vorrei condividere un’immagine che mi è stata consegnata a questo scopo da capi molto più esperti di me e che mi è particolarmente piaciuta: immaginate una nave. Può essere una nave di qualsiasi tipo (da crociera, spaziale…) ma a me piace pensare ad un veliero pirata o corsaro o di un qualche condottiero dal grado strano tipo “commodoro” o “contrammiraglio”. Ognuno sulla nave, indipendentemente dal tipo di imbarcazione, ha un suo posto e un suo ruolo. L’equipaggio è ovviamente composto da esploratori e guide, ma i capi dove stanno? Al timone? Di vedetta? Seduti al quadrato degli ufficiali con la mappa e la bussola?
Signornò! Noi capi non siamo sulla nave: siamo il mare che la tiene a galla e, a volte, il vento che la spinge. Tutto il resto è in mano a loro.

EG (di nome e di fatto)

La coppia-mito Zana e Nic

Questo è forse il numero più significativo di tutti i Tuttoscout dell’anno perché riassume così intensamente e a fondo tutto il nostro percorso nello scoutismo, tutte le nostre tappe attraverso cui passiamo e in cui cresciamo.
In questo numero troverete i racconti e i saluti di quelli che sono “passati”, di chi dopo un periodo di crescita più o meno continua si trova a dover compiere un salto, una nuotata, attraversare un ponte…

Per tutti si tratta di un momento, un giorno speciale, ma in realtà attraverso questo Tuttoscout si può “leggere” il percorso per intero: i castori diventano lupi, l’uomo torna all’uomo e si indossa lo zaino per affrontare la Strada.
È quindi bello poter raccontare di due persone, due amici, che hanno condiviso questi momenti insieme da quando erano lupetti nei Seeonee a quando si sono trovati come capi nel Reparto Pegaso. Sto parlando della coppia-mito Zana e Nic, con cui mi sono trovato a condividere prima il Clan e poi l’essere capo.
Ho voluto chiedergli di raccontarci alcuni degli episodi più significativi della loro amicizia scoutistica ed ecco cos’hanno risposto:
niczana
Nic: il ricordo più nitido che ho di Zana al tempo dei lupetti è sicuramente l’ultima notte da CDA al campo estivo. Eravamo solo noi due e dovevamo alternarci a curare il fuoco… Un disastro! Al momento della sveglia io mi giravo dall’altra parte… E lui non era da meno! E non potevamo nemmeno ripiegare sullo svegliare qualche altro CDA perché… Eravamo solo noi 2!
Questo è sicuramente il primo ricordo indelebile che ho della coppia Zana-Nic.

Zana: il ricordo più forte, e forse più doloroso, che ho di Nic nei lupetti è quando, dopo quattro o cinque anni di branco insieme, lui è passato in Pegaso. Subito dopo di lui i passaggi al Pegaso si sono chiusi e ho capito che non saremmo stati insieme. È stato un momento molto forte perché eravamo molto legati e avevamo vissuto tanti bei momenti insieme.

In reparto, purtroppo, ci si separa: Nic in Pegaso e Zana in Orione (dove l’ho conosciuto), ma, come sui sentieri di montagna, ci si divide per rincontrarsi un po’ più avanti… nel Clan del Brugo.

Nic: di ricordi di Andrea in clan ne ho parecchi: 4 route insieme, una felpa gialla che aleggia ancora come un incubo nelle teste dei capi clan, il fazzolettone storico del clan tenuto in ostaggio a casa sua per anni, la nostra pattuglia logistica specializzata nella sottile arte de “l’improvvisazione”. Ma l’episodio che ricordo meglio risale alla route di pasqua ad Assisi. Tornando verso il clan dopo aver fatto spesa cominciò a tuonare. Il buon Andrea, spavaldo, punta il dito al cielo e urla: “è tutto qui quello che sai fare?”. Mezzo secondo dopo la grandine ci stava già incrinando le costole e noi stavamo correndo come dannati, senza riuscire a smettere di ridere.

Zana: con Nic non ci siamo ribeccati subito in Clan perché io sono passato in noviziato un anno prima. Poi ci abbiamo messo un po’ a riavvicinarci perché ci eravamo lasciati da bambini e ormai eravamo ragazzi, con due diversi bagagli di amicizie ed esperienze. Una volta riallacciati i rapporti abbiamo costruito un gruppo di amicizie che dura tutt’ora, nonostante i tira-e-molla tipici di quell’età. Dentro e fuori le riunioni eravamo sempre insieme.
Ho un sacco di ricordi delle route (ed è meglio se non li racconto tutti) ma forse il più divertente è quello del viaggio per Assisi [in cui Zana e Nic arrivarono dopo in treno] in cui per circa 8 ore Nic è riuscito a far passare il tempo nei modi più comici mentre io mi annoiavo a morte.
Ricordo anch’io qualcosa a riguardo uno strano pupazzetto di plastica di nome “Pino” usato per intrattenere gli altri ospiti della carrozza, anche se ovviamente l’ho solo sentito raccontare…

Dopodiché arriva la scelta, fondamento del cammino di rover e scolte: partire o non partire? E, nel caso, restare o no?
Anche qui prima ci si separa, perché ognuno ha i suoi tempi, ma poi ci si ritrova ancora insieme:

Nic: di ricordi di Zana in Pegaso ne ho una vagonata! Ma il più bello è sicuramente uno dei più recenti: era l’ultima sera del campo estivo e avevo appena annunciato al reparto la fine del mio servizio. Dopo l’urlo (che ha rimbombato nella valle per mezz’ora, ovvio), il “momento abbracci” è stato uno dei più emozionanti che io abbia mai provato. E l’abbraccio tra me e Zana è stato come un riassunto di 16 anni passati a calpestare quasi sempre le stesse strade, da ragazzi come da capi (mo’la lacrimuccia gliela faccio scendere all’uomo d’acciaio!)

Zana: qui c’è ancora di più da raccontare, forse anche perché sono ricordi più recenti. Sicuramente però uno dei più divertenti e che racconterò sempre è di quando Nic si è scofanato un chilo di polenta da solo durante un campo di Pasqua. È sempre stato una buona forchetta…
È sempre stato un compagnone e molto bravo a fare gruppo e, soprattutto, a mantenere la calma anche nelle situazioni più disperate. Si agita molto difficilmente ed è per questo che è stato bello prendere in mano il Reparto insieme a lui. Queste nostre due personalità “complementari” sono state molto utili nel rapporto con i ragazzi e nel rapporto leggero e allegro che si riusciva ad avere in staff.

Quindi, se dovessimo fare una sintesi di tutto ciò?

Nic: poche parole non bastano a descrivere tutti questi anni. Siamo persone molto diverse: Zana è più metodico ma talvolta incredibilmente impulsivo. Io sono sicuramente meno organizzato, e a volte lascio che sia “il karma a occuparsi di come andranno le cose”. Però sono il più tranquillo dei due e mi tocca frenarlo un po’.
Al di là degli aneddoti stupidi e di episodi divertenti, siamo cresciuti insieme, sia come bambini che come ragazzi, e infine come capi, con tutto ciò che ne consegue: momenti belli, alcuni meno belli, incomprensioni (nelle amicizie c’è anche questo), affrontando le situazioni più disparate sempre con il sorriso. Non avrei mai potuto immaginare compagno di staff migliore… Compagno di avventure migliore…

Zana: per tirare un po’ le fila del discorso, insomma, c’è da dire che il bello dell’amicizia tra me e Nic è che ci siamo prima conosciuti da bambini, poi da ragazzi e infine abbiamo imparato a condividere anche le responsabilità da adulti che l’essere capo ti richiede. In più siamo diventati amici anche fuori dall’attività e penso che questo sia una cosa molto importante dello scoutismo in quanto ti permette di costruire dei legami e relazioni che ti porti dietro per la vita.
Adesso che Nic è uscito dalla staff si sente perché lui era molto bravo a portare leggerezza mentre a me non riesce altrettanto bene.
Sono sicuro che continueremo ad essere amici fuori di qui come lo siamo sempre stati nonostante gli impegni di lavoro che lo hanno portato a prendere questa scelta.

Dal canto mio posso dire di essere stato fortunato testimone (oserei dire “privilegiato” in quest’ultima parte) della straordinaria compatibilità tra due persone così apparentemente diverse. Con loro sento di aver imparato molto e molto bene sostanzialmente perché il loro approccio alle cose decisamente diverso dal mio mi ha spinto a sperimentarmi sempre più e, soprattutto, perché ci siamo divertiti un mondo.

 

Geco Coinvolgente

Un anno a bocca aperta

In famiglia, mi prendono tutti in giro, perché la mia esclamazione più frequente è “ooooooh! ”.
Occhi e labbra si muovono indipendenti dalla mia volontà, e così mi ritrovo spesso a sentirmi dire che parlo con gli occhi e che non sono in grado di nascondere quello che provo.
Non so le volte che, a bocca aperta, ho ascoltato i racconti del “Libro della giungla”, da Bagheera e da Akela, come un bambino e mi sono ritrovata a chiudermela, la bocca, con le mani…
E le lacrime di commozione nel veder cantare la mia comunità capi… preciso che sono intonati…
A 46 anni ho vissuto un anno di “ooooooh”, inaspettato, voluto e vissuto, pian piano, con gioia.
Non ero scout, pare che ora io lo sia.
Bè, voglio tenermi per me i ricordi del campo estivo con il mio branco e non dimenticare i visi dei lupetti durante le avventure dell’anno trascorso. Esperienze belle e troppo grandi per scriverne e raccontare.
Grazie!

 
Una tartaruga che ora ha le ali

Vale la pena

Perché non è facile fare i capi scout! È bello, davvero tanto! Ma molto impegnativo, se lo vuoi fare bene. E, sempre se lo vorrai fare bene e a lungo, avrai da soffrire, perché non ti andrà sempre bene con i ragazzi, perché non incontrerai sempre il favore dei genitori, ma soprattutto perché a volte la tua associazione sembrerà non comprenderti. E capiteranno i momenti in cui, di ritorno da un’uscita proprio andata male, ti verrà da domandarti: “Ma perché? Mi ricordate chi me lo ha fatto fare?”.
Non sappiamo dirti quali risposte ti verranno. Forse la prima sarà il ricordo che non ti è sempre andata male: tornerai con la fantasia a quel campo davvero ben riuscito, a quell’impresa dei tuoi esploratori che ti ha sorpreso, a quel punto della strada dove ti è sembrato di vedere i cuori dei tuoi rover e delle tue scolte. E dirai: “Ma sì! Ne vale la pena”. E’vero: ne vale la pena davvero per le tante esperienze belle che hai vissuto, e che speri si ripetano. Ma non basta.
E… sai cosa ti diciamo? Forse una cosa che sembra quasi contrastare con tanti discorsi che abbiamo fatto fino ad ora: non basta nemmeno la fede, o la voglia di cambiare il mondo con la speranza! Una fede cieca si chiama fondamentalismo, e una speranza sbarazzina si chiama illusione. E noi non possiamo vivere di fondamentalismi ed illusioni.
Il Signore ci scampi da capi fondamentalisti, che in nome della fede in Cristo non vedono più le persone in faccia! Conosciamo fin troppi capi clan che, in nome di una fede di cui solo loro si sentono i custodi, cacciano rover e scolte dai clan e dai fuochi, con le più sottili tecniche. Conosciamo fin troppe comunità capi dove “i vecchi” si sentono paladini del Vangelo e accusano i giovani di mancare di scelte di fede autentiche, ma conosciamo anche comunità capi dove i giovani ritengono di essere i depositari “dell’ultimo vangelo”, quello nuovo, quello adatto a questi tempi, e gli altri invece sono rimasti al medioevo. Conosciamo anche comunità capi dove si parla di fede, si dicono le preghiere, ma il vangelo non è poi così rilevante e la fede resta qualcosa sullo sfondo di vago e di non definito. Ma fa onestamente paura una fede cieca, che non vede nulla e non guarda in faccia a nessuno, … forse non è fede, o almeno non quella che ha Gesù Cristo come autore e perfezionatore.
Ma non basta nemmeno la speranza, se non è ben fondata. Conosciamo zone e gruppi dove un po’ di parresia, un minimo di franchezza e la voglia di nuovi inizi potrebbero far bene, e invece si spera che andrà meglio. Conosciamo gruppi che sulla carta non possono riaprire l’anno dopo, non hanno né capi né ragazzi, poi un colpo di fortuna e si andrà avanti così per un po’, fino alla chiusura, di speranza in speranza. Oppure conosciamo gruppi che spendono tantissime energie per essere presenti ad ogni manifestazione del territorio, che non mancano di sottoscrivere mille campagne, di organizzare sensibilizzazioni per mille questioni, perché vogliono lasciare il mondo un po’ migliore di come lo hanno trovato, e poi magari non si accorgono che il lupetto del branco non viene in uscita e inventa mille scuse solo perché non può pagare la quota.
Non mancano capi che lo fanno per una sorta di “accademismo scout”. Ne abbiamo già parlato: sono quelli che sanno regolamenti e statuti a memoria. Perché lo scoutismo ha un aspetto affascinante dal punto di vista metodologico, è una macchina bella da veder funzionare, e può regalarti anche diverse soddisfazioni. Conosciamo degli accademici dello scoutismo, che hanno la soluzione per ogni cosa, e hanno unità impeccabili, nel vederle… poi il problema è che il gioco finisce non appena i ragazzi reclamano di essere uomini, e non soldatini.
Ci lasciamo suggerire da san Paolo un motivo per cui vale la pena fare tutto: “Tre cose rimangono: la fede, la speranza e l’amore. Ma di tutte più grande è l’amore”. Serve la fede, occorre sperare, anche oltre ogni speranza, ed è decisivo il metodo. Non ritrattiamo quello che abbiamo detto fino a qui, ma solo l’amore è credibile. Ci piace pensare allo scoutismo come ad un grande atto d’amore per le giovani generazioni e per il mondo. Occorre volere bene ai nostri ragazzi: solo per questo vale la pena. “Scoutismo” è solo il nome proprio dell’amore che vogliamo ai nostri lupetti e alle nostre coccinelle, ai nostri esploratori e alle nostre guide, ai nostri rover e alle nostre scolte. E loro se ne accorgono! I ragazzi capiscono se loro e lo scoutismo sono solo un mezzo per altri fini, o se gli vogliamo bene.
Ci permettiamo di dare alcuni suggerimenti. Cari capi, non parlate mai male dei vostri ragazzi. Quando fate due chiacchiere prima di addormentarvi ai campi estivi, non prendete in giro il tale per quel suo atteggiamento o il tal altro perché non ce la fa. Parlate sempre bene dei vostri ragazzi: tanti di loro non hanno nessuno che li stimi davvero; che abbiano la fortuna di avere capi scout che li fanno sentire stimati. Siate più portati a sottolineare le cose che sanno fare, e poi magari stimolateli a migliorare, a partire dalla cattedra migliore che avrete: il fatto che loro si sentiranno amati.
Organizzate i campi più belli e complessi di questa terra, ma se capita che vi trovate sdraiati su un prato a chiacchierare con i vostri ragazzi, va bene! Cercate i momenti in cui farvi prossimi, accessibili, amici. Non crediamo nel mito del capo che deve essere quasi inarrivabile e perfetto: non vergognatevi di essere stanchi e di riposare un po’ con loro, di non farcela e di dichiararlo. Non abbiate paura una sera a entrare nella tenda degli esploratori, anche quando è tardi, e a parlare un po’ con loro, a raccontare due idiozie: diventerete amabili, e loro sapranno che li amate.
Quando la tal guida o il tal rover non si fanno vedere da un po’, andate a trovarli! Non mandategli l’SMS, e non scrivetegli su Facebook: lo fanno tutti! Invece voi fategli capire che vi stanno a cuore: offritegli un gelato, perdete tempo con loro. Si, anche quel rover un po’ indisponente! Non mancherete di avere la vostra ricompensa.
Non siate “coccolosi”, ma ricordate che un abbraccio, una carezza, una pacca sulle spalle possono fare molto. Non siate ghiaccioli!
Pregate per i vostri ragazzi, tutti i giorni. Siano un pensiero fisso, un affetto importante. Devono mancarvi un po’, e dovete essere contenti di andare a riunione: non si è mai sentito che si voglia bene davvero a una persona che non si vuole vedere. Non sbuffate prima delle riunioni, non fategli percepire che sono un impegno tra i tanti. Se anche fosse vero, tenete bene in testa e fateglielo capire che loro sono un vostro affetto, non un vostro impegno.
Quando andrete a fare tutta la vostra formazione, ogni tanto passate in rassegna i vostri ragazzi, e ricordate che lo state facendo per loro, non per altro. E il giorno che vi arriverà il Gilwell, ricordate che pesa un sacco: è l’impegno ad amare facendo i capi scout. Non sia qualcosa che vi distacca, ma che vi stringe con ancora più decisione ai vostri ragazzi.
Solo l’amore è credibile. Solo per l’amore ne vale davvero la pena.

 

Da Caro Veritatis Cardo

Sono tornato in clan: di nuovo sull’essere adulti

Al termine di una giornata lunga, mi si fa incontro un pensiero breve. In un recente articolo scrivevo di come durante un incontro regionale, noi giovani capi siamo stati posti in guardia proprio su quel che credevamo essere un punto di forza: la nostra età. Ventenni o poco più, ci dicevano, siete chiamati ad essere adulti e non più giovani.
Una settimana fa, in barba a questo ammonimento, ho deciso di partecipare ad un incontro per i “giovani della parrocchia”. Ebbene sì, l’ho fatto. Si trattava di un incontro di catechesi sulla beatitudine della misericordia (“Beati i misericordiosi perché troveranno misericordia” Mt 5,7), ribattezzabile “l’altra faccia della misericordia: la giustizia”: se ne parla tanto e se ne parlerà ancora, ma non è ciò di cui voglio parlare ora.
Per un attimo mi è sembrato di tornare in clan: c’era il capo clan che parlava (il don) e un gruppo numeroso di r/s (“i giovani”) che lo ascoltavano in attesa di una qualche illuminazione. Inviti a partecipare alla discussione, domande provocatorie… e nessuno parla. Ad un certo punto mi sono detto: sarebbe un buon momento per un ban! Mi guardo intorno ma niente: non c’è traccia della pattuglia menate. A dirla tutta non c’è traccia di alcuna pattuglia o gruppo, che dir si voglia, che si sia preso in carico l’animazione di questo o quel momento della serata. Tutto dipendeva dal capo (il don): esattamente la situazione che, ci diciamo sempre soprattutto in branca RS, non dovrebbe verificarsi.
Di nuovo scruto i volti di questi giovani, la maggior parte dei quali ben oltre l’età della Partenza: vedo diversi studenti universitari, alcuni lavoratori; in particolare vedo adulti costretti ad essere etichettati ancora come giovani, potenziali capi scout (deformazione professionale), potenziali responsabili in qualche associazione di volontariato… E ringrazio la mia Associazione, che compiuti i 21 anni mi dice: tu sei pronto e lo devi rimanere sempre (“estote parati”), vai nel mondo e costruisci qualcosa di buono. La mia Associazione e la mia Co. Ca. si fidano di me e mi affidano un compito immane: contribuire alla crescita di oltre trenta ragazzi. Una responsabilità che solo con l’aiuto di Dio possiamo effettivamente ed efficacemente sostenere.
Chiedo scusa agli amici del “gruppo giovani”: certamente in ambito oratoriano avranno tutti modo di fare servizio e spendere il proprio tempo per gli altri assumendosi responsabilità importanti. Ho soltanto preso spunto da una situazione per svolgere un discorso più ampio. A proposito di ampiezza, occorre fare alcune precisazioni:
1) Quando ci diciamo adulti non significa che dobbiamo abbandonare quella serie di vantaggi, quella freschezza che ci deriva dal poter spegnere ancora a fiato -e non con un idrante- le candeline sulla nostra torta di compleanno. Quel che conta, si sa, è lo spirito: per questo gli adulti non sono necessariamente vecchi e i vecchi non sono per forza decrepiti.
2) Per la nostra Associazione, prima di diventare capi noi siamo adulti sì, ma “in formazione”. L’adulto quindi (ma neanche il capo io credo) non può dirsi arrivato: gli occorre una formazione di base e una formazione continua, da curare con attenzione.
Doveva essere un pensiero breve, perdonatemi.

Carlo Maria