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L’importanza di salire il primo gradino

Benvenuti cari amici ed amiche ancora una volta sulle pagine di generazione X.
Questa piccola formula, che ormai uso da anni e che, vi dirò, è un ottimo antidoto al tipico “terrore della pagina bianca” era nata con l’intento di essere accogliente ed inclusiva: in essa si dà il benvenuto ad entrambi i sessi messi, per quanto l’ordine della lettura possa permetterlo, esattamente sullo stesso piano.
L’idea di trattare tutti nella maniera il più equa e priva di pregiudizi possibile è sempre stato un ideale che ho sempre cercato di rispettare nel corso della mia vita e la sua importanza è per me aumentata quando, dopo essere diventato capo, mi sono trovato a dovermi relazionare con tantissimi ragazzi diversi: mi sono trovato ad interagire con adolescenti timidi, esuberanti, astuti, inconcludenti, ed a dover trattare tutti loro allo stesso modo, ma anche diversamente, cercando di ottenere il giusto bilanciamento fra la capacità di mettermi nei loro panni ed il mantenermi distaccato per poter trovare una soluzione oggettivamente corretta ai loro problemi. Non importa se la problematica fosse la scuola, delle tensioni in famiglia, la mancanza di denaro o quant’altro, si fa il possibile per trovare una soluzione cercando, nei limiti della ragionevolezza, di venire incontro non solo ai bisogni del ragazzo ma anche di rispettare quello che lui percepisce come importante.
Per questo trovo genuinamente avvilente quando, di fronte ad alcune prese di posizioni dei ragazzi che evidentemente sono costate loro molto ragionamento, non poco coraggio e che andranno inevitabilmente a modificare profondamente come loro stessi si vedono e forse anche di più come il mondo esterno interagirà con loro, ci sono capi la cui reazione è chiedersi “Non è che lo sta facendo per attirare attenzione?”.
Ad onor del vero, è una possibilità: tutti abbiamo avuto dei periodi più o meno fuori dal comune durante l’adolescenza, ma questo mi sembra il modo peggiore per affrontare la questione.
Innanzitutto perché mi pare irrispettoso nei confronti del ragazzo. Può anche darsi che nel lungo termine si tratti solo di una bislacca fase adolescenziale ma, nell’adesso che vive il ragazzo, quella fase è, a tutti gli effetti, ciò che lui è: perché non considerarlo seriamente?.
Secondariamente perché, trattando il tutto come il capriccio di un momento, rischiamo di alienarci il ragazzo e di lasciarlo da solo proprio nel momento in cui più può aver bisogno di noi: sono sicuro che per molti gli scout siano stati una zona sicura nella quale rifugiarsi quando il mondo esterno sembrava esserci nemico: in attività potevamo sfogarci rispetto ad un ambiente casalingo troppo ingessato, o era dove potevamo mettere a frutto capacità mentali e manuali che la scuola non ci chiedeva di usare; per me era il luogo dove potevo semplicemente essere me stesso, in contrasto con un ambiente scolastico che mi voleva, ad ogni costo, amalgamato alla norma.
E questo è nulla rispetto a quello che deve passare un ragazzo che si renda conto di provare sentimenti per quello che, ancora per molte persone, è cinsiderato il sesso sbagliato, e questi ragazzi meritano di trovare negli scout un posto aperto, costruttivo ed accogliente, come lo abbiamo trovato noi.
L’ultimo, fondamentale motivo per cui non dovremmo prendere con leggerezza queste problematiche dei nostri ragazzi è che, che ci piaccia o meno, questo è solo il primo gradino. Il mondo sta cambiando molto in questo senso e, se a noi che facciamo gli educatori è chiesto semplicemente lo sforzo di accettare il cambiamento, per molti nostri ragazzi l’incertezza del cambiamento è la loro realtà quotidiana, in cui sguazzano molto meglio di noi: oggi scoprono di provare sentimenti per il loro stesso genere, dopo inizieranno a chiedersi se i vestiti che portano rispecchiano veramente chi sono dentro, e così via finché, un giorno, ci troveremo col problema di capire quale, dei due possibili patacchi cucibili sul taschino destro, sia giusto dare al ragazzo.
La risposta non sarà semplice e richiederà un lungo e profondo dibattito: tanto vale iniziare a portarci il più avanti possibile.
Tricheco Birbante.

hanno lasciato una traccia: Père Jacques Sevin S.J.

Père Jacques Sevin S.J.

“Insegnare ai bambini a diventare uomini, insegnando agli uomini a ritornare bambini” Padre Jacques Sevin, gesuita, nacque a Lilla il 7 Dicembre 1882. Fin dal 1913 si interessò al movimento scout, che volle studiare recandosi personalmente in Inghilterra, ove strinse profonda amicizia con Robert Baden-Powell. Nel 1920 fondò l’associazione degli Scouts de France, di cui fu commissario generale fino al 1924; al primo Jamboree mondiale (Londra) istituì assieme al belga J. Corbisier ed al conte Mario di Carpegna (fondatore dell’ASCI), l’Organizzazione internazionale dello Scautismo Cattolico, da cui si sviluppò in seguito la Conferenza internazionale cattolica dello scautismo. È suo merito quello di avere profondamente ripensato i valori ed i simboli propri al metodo scout, con l’intenzione di immettere lo scautismo nella vita stessa della Chiesa, quale mezzo per meglio servire Dio e il prossimo. Fu lui a donare al movimento i primi lineamenti di una caratteristica spiritualità, anticipando numerose intuizioni del Concilio in campo educativo, liturgico, ecumenico. Molti dei canti da lui composti – su melodie preesistenti – esistono anche in versione italiana e costituiscono il nucleo più antico e più bello del repertorio scout: Il Canto della promessa, il Canto dell’addio, La leggenda del fuoco, Preghiera della sera, Signor tra le tende schierati. Si spense a Boran sull’Oise il 19 Luglio 1951, dopo aver dato inizio nel 1944 alla Compagnia della Santa Croce di Gerusalemme, riconosciuta nel 1963 come congregazione religiosa femminile di diritto diocesano. Essa è presente in Francia (con sei case, tra cui pure una fraternità di stretta vita contemplativa), in Terra Santa ed in Cile. Il carisma proprio della Congregazione è quello dell’apostolato educativo tra i giovani, alimentato da una spiritualità contemplativa ignaziana e carmelitana, e attraverso numerose delle intuizioni educative proprie del metodo scout. Nel 1993 si è chiusa la fase diocesana del processo di beatificazione del Padre Sevin.

Una storia da ascoltare… un capo branco di valore

Con il finire dell’estate calda, mi aggrego ai frati, per andare ad Assisi. Di Francesco non c’è traccia, forse è a Perugia. La città è diversa, sembra più tranquilla di un tempo. Ci sono dei cantieri aperti, con case in costruzione. Le strade di ciottoli però, ospitano sempre i bambini che corrono vocianti nei loro giochi. Nessuno bada a me, nessuno mi insulta e nessun sasso viene lanciato.
Ai bordi delle strade i mendicanti sono seduti con la loro ciotola in mano; è mattina e qualcuno si inchina a fare l’elemosina, senza nascondersi. Cosa ha causato questo cambiamento?
Da lontano vedo una coppia di frati nel saio color terra, con le braccia cariche di sacchi e coperte. Stanno scendendo per la strada che porta al lebbrosario. Dal colle dove si trova la città, si vede la piana sottostante, illuminata dal sole, come un grande quadro. Guardo le pendici della città, i palazzi dei nobili in alto, le baracche degli ultimi in basso. Tra questi due livelli, un’incessante attività di carità che avvicina queste realtà distanti, facendo in modo che entrambe trovino giovamento: gli uni allo spirito, nel donare, gli altri al corpo, nel ricevere. Quello che stupisce è vedere come la malattia possa cambiare una persona. Ricordo che tempo fa, ho conosciuto un tale che, da sano, sfuggiva noi ultimi, ma che una volta colpito leggermente dalle piaghe, ha cambiato totalmente modo di vita. Aveva, se non ricordo male, una bottega dove rilegava i libri, cuciva i fogli e le copertine, riparava vecchi tomi che provenivano anche da biblioteche lontane. L’ho visto io stesso, sottrarre tempo alla bottega, per venire qui a dare una mano. Chissà che fine avrà fatto!
Le condizioni del lebbrosario erano leggermente migliorate, non c’erano più capanne fatiscenti di stracci e paglia, ma piccole baracche di legno costruite dai frati che accudivano i malati. L’olezzo era lo stesso, ma all’occhio mi balzò subito la maggiore presenza di gente comune. Gente del paese che portava vestiti puliti, bruciava le bende sporche, portava acqua e pane. Passo lentamente nel piccolo villaggio dove la tolleranza è la massima espressione di solidarietà. Qui non ci si viene per caso, se sei malato lo cerchi per trovare sollievo e se non lo sei, lo cerchi per dare conforto. Nei giorni seguenti gironzolavo tra le piane: a mezzo colle c’è un luogo dove alcuni frati si ritirano in preghiera, anche Francesco.
Tra il bosco di lecci e querce, ci sono delle grotte che ospitano i frati, sulla nuda terra. L’eremo delle carceri, come viene chiamato, dista da Assisi, pochi chilometri, su un sentiero immerso nel verde. Incamminarsi per quella strada avvolta nella quiete, interrotta solo dal canto degli uccelli, mi dice che l’impronta della Sua mano, è presente ovunque. Ogni tanto si incontrano frati che cantando, scendono o salgono, salutando chiunque incontrino, gioiosamente. Fu uno di questi, fermo a prendere fiato, che mi raccontò di Francesco.
Da tempo la sua salute è peggiorata, anche se lui continua a dire di stare bene e di non preoccuparsi. Da tempo si è messo da parte, è sempre lui il riferimento per la marea di fratelli sparsi nel mondo, ma non è più lui a capo del movimento dei frati. Lo ha riferito in una riunione, quella che chiamano il capitolo, davanti ai suoi compagni.
Per la piana ed in città, era un via vai di gente vestita come lui. Ricordo di essermi seduto fuori dalla porta a guardare la gente che passava, come facevo da un po’, da che le gambe fanno fatica a reggermi e la schiena scricchiola. Un vecchio prete, che conosco da tempo, da quando giravo ad aggiustare sedie e tavolini per vivere, si ferma e parliamo. Anche lui ha sentito di Francesco. Sa che non sta bene. Chissà come, quando si tira in ballo Francesco, qualche aneddoto viene rispolverato: tempo fa ero a Gubbio, un paese più a nord di Assisi. Sapevo che in quel periodo c’era il pericolo di imbattersi in branchi di lupi affamati. Avevano già decimato polli e pecore dei villaggi più isolati e a volte, purtroppo qualche pastore sprovveduto, ci ha lasciato la pelle. La notizia dilagava tra i pastori e tra la gente dei borghi lontani dalla città.
Francesco era di ritorno da non so quale strada, fatto sta che, trovandosi a Gubbio, venne informato dei lupi. Un giorno gli ululati si fecero così vicino alla città, che la gente spaventata si ritirava nelle case. Il paese era deserto, si sentivano in lontananza i guaiti inquietanti di quegli animali. Ma quello che mi sconvolse fu la serenità di Francesco, quando chiese al curato di dargli da mangiare per quelle povere creature affamate. Il povero prete non seppe cosa dire e di tutta risposta diede a Francesco del pane, un pezzo di salame e una gallina appena spennata. Sarebbe stato il suo sostentamento per una settimana, ma aveva imparato, come tutti, a non fare domande a quell’uomo di Dio.
Solo, nel paese deserto, con il suo fagotto di cibo, Francesco si incamminava per le vie, seguendo quei “guaiti” lontani. Le notizie volano come il vento e lungo la strada qualcuno dona a Francesco altro cibo per i lupi. La fiducia in quell’uomo è immensa. Dietro di lui, a distanza di sicurezza, si va formando una piccola processione di uomini e donne in preghiera. Lo so perché ero io a recitare il Padre nostro a mezza voce, poi seguito da tutti gli altri. Timore e speranza di vedere qualcosa di insolito, da poter raccontare.
Nel Vangelo si legge “Andrete come agnelli in mezzo ai lupi” Era quello che stava facendo un uomo solo. Fuori dal paese, dopo le ultime case, ci siamo fermati, colpevoli di vigliaccheria, e lui, solo, camminava verso i lupi. Fuori dal bosco Francesco si inginocchia, non butta il cibo lontano, ma lo tiene vicino a sé. Le sue braccia alzate invitano i lupi a venire da lui. E qui avvenne tutto. Dai cespugli qualcosa si muoveva, respiri affannati di bestie che si avvicinavano ed annusavano l’aria carica di odori di cibo. Un solo lupo, forse il capo branco, si stava dirigendo verso il cibo e verso Francesco. Fra le ombre della macchia del bosco, gli occhi affamati del branco. Di solito il capo branco, per manifestare il suo valore, tiene la coda ritta, ma, a tre metri da Francesco, la sua testa era china come la coda. Francesco lo chiama e questo avanza fino a farsi accarezzare. Francesco gli parla e il lupo si lascia toccare, leccando le mani dell’uomo di Dio. Ci fu un attimo di sgomento quando il lupo appoggiò le zampe anteriori alla spalla di Francesco, toccando con la sua, la testa di Francesco. Lui abbracciò il corpo del lupo e poi lo fece scivolare a terra. Mentre si alzava, il lupo rimase a guardarlo negli occhi. Francesco sorrise, un’ultima carezza tra le orecchie e sotto il mento, poi si voltò per tornare sulla sua strada, lasciandosi alle spalle due occhi amici. Francesco vicino a tutti noi, si voltò e salutò tutti i lupi usciti dal bosco, vicino al loro capo: “La pace sia con voi, fratelli lupi!”.
A quel punto tutti i lupi presero il cibo per portarlo via nel bosco, dove tornavano, tranne uno. I suoi occhi guardavano solo Francesco e lui lo benedì con un grande segno di croce. La belva emise tre ululati e andò verso il bosco, non prima di dare un ultimo sguardo a Francesco, muovendo leggermente la coda. Poi sparì. Da quel giorno i lupi non si fecero più vedere nei pressi della città e dei villaggi vicini. Li si poteva sentire nei boschi; ogni tanto qualcuno lasciava tra gli alberi, galline spennate o ossa di maiale con un poco di polpa, a ringraziamento per quel “patto” fatto da Francesco.
Il prete si ferma di raccontare: sembra una favola, ma so che questo è tutto vero e da aggiungere ad altri fatti di ordinaria originalità, dei quali la strada di Francesco è colma.
Affascinata e piena di gioia, con gratitudine ringrazio l’autore di questi racconti, Fabio Bergamaschi.
Alla prossima lettura!
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Ci vediamo dall’altra parte

Il 16 febbraio è toccato anche a me scegliere. Decidere di prendere la partenza non è così facile come sembra perché serve capire davvero cosa si vuole fare della propria vita arrivati ad un certo punto. Ecco perché ho deciso di mettere la lettera che ho scritto al clan per far capire cosa per me ha significato prendere la partenza.

Caro Clan,
è strano essere qui in mezzo ai capi a leggervi la mia lettera. Non credevo che questo momento sarebbe arrivato così presto, nonostante siano passati quattordici anni da quando ho varcato il cancello della sede per la prima volta. Non mi sarei mai aspettata che gli scout diventassero così importanti nella mia vita: mi ricordo ancora come se fosse ieri quando ho chiesto alla mia Arcanda se agli scout si dormiva fuori senza genitori e lei mi ha risposto di sì. Ecco, quello è stato il momento in cui ho realizzato che da qui non mi sarei mai più mossa. Grazie ai miei capi delle Coccinelle (sì, vado fiera di essere stata una Coccinella!), che mi hanno accolto a braccia aperte, ho capito cosa volesse dire veramente la parola “Eccomi”.
Ma come tutte le avventure, anche questa è arrivata al termine e alla fine di un percorso vanno sempre prese delle decisioni che indirizzeranno la tua vita in futuro. Da quando sono entrata sapevo già come sarebbe andata a finire: non posso andarmene senza prima aver dedicato del tempo agli altri. Ecco perché ho deciso di rimanere in Associazione: ho voglia ed energia da dare a coloro che stanno muovendo i primi passi all’interno di questo mondo che a me ha cambiato la vita e vorrei essere al loro fianco per poter scoprire tutto quello che ancora non so proprio come dice la canzone “è adesso il momento di dare il meglio a viso aperto”.
Il lavoro che vorrò fare da grande mi porta a prendere un’altra decisione fondamentale per il cammino di partenza: quella di essere un buon cittadino e fare di tutto per poter “lasciare il mondo un po’ migliore di come l’ho trovato”. Sì, perché facendo l’insegnante avrò la possibilità di insegnare a coloro che saranno i miei alunni cosa vuol dire il rispetto per il mondo, la sua cura e soprattutto tutti quei piccoli gesti che potremmo fare anche noi nel nostro piccolo.
La scelta di fede invece è stata quella più complicata ma ho ricevuto un grande aiuto in un evento a cui ho partecipato e in cui ho lasciato un pezzo di cuore: la ROSS mi ha fatto capire che la fede non è solo dentro un momento prestabilito e inscatolato ma la si vive in ogni momento. Per me si può definire come un luogo in cui andare con la mente per cercare di trovare un momento di pace, un momento per ragionare sulle scelte prese, sul tempo vissuto e cercare un dialogo vero con Dio.
Eccomi qui allora, al momento in cui finisce la mia vita da educanda e inizia quella di educatore. Sicuramente non sarà tutto rose e fiori ma proverò a dare il meglio di me e a vivere appieno tutti i momenti che arriveranno. Mi è stata data la possibilità di vivere tutto ciò dalla mia famiglia che devo ringraziare di cuore per avermi sostenuta nell’andare avanti e non mollare mai.
Dopo di loro c’è una marea di gente a cui devo molto: grazie ai miei capi clan che, nonostante tutto, mi hanno accompagnato fino a questo momento dandomi anche l’opportunità di partecipare alla ROSS, nella quale ho conosciuto delle persone stupende che porterò sempre nel cuore. Grazie a tutte le staff in cui sono stata come scolta, per avermi dato la possibilità di mettermi in gioco, sbagliare ed essere corretta in modo da diventare un buon educatore.
E infine grazie clan: grazie ad ognuno di voi per avermi permesso di condividere un pezzo della mia vita con voi e di esserci stati quando più ne avevo bisogno. Spero di avervi lasciato una briciola di me tanto quanto voi ne avete lasciate a me. Dico solo una cosa ad ognuno di voi: ci vediamo dall’altra parte!
Buona Strada,
Giulia Rossetti Colibrì solerte

Credete in voi stessi e fidatevi di chi vi sta accanto

“Accogliere con gioia”. Quando mi è stato presentato il tema di questo tuttoscout mi si sono prospettate due idee: o mandare alla redazione la mia lettera della partenza (opportunamente riadattata per non farla sembrare proprio una copiatura…) o scrivere un articolo inerente all’argomento ma senza partenza.
Ho scelto invece di spiegare perché secondo me “accogliere con gioia” è stato un po’ il motivo per cui sono finita a prendere la partenza.
Sono stata accolta con gioia dai miei genitori, che mi hanno fatto conoscere questa splendida avventura che è lo scautismo e che sempre con la stessa gioia del primo momento hanno perseverato nella convinzione che fosse il tipo di educazione di cui avevo bisogno.
Mi hanno poi accolto i miei vecchi lupi così come ero, con il mio carattere, le mie insicurezze e i miei difetti. Con gioia mi hanno accompagnato negli anni del branco, sapendo che in quel momento stavano facendo giocare una bambina, ma che quella stessa bambina poi sarebbe diventata grande.
E così i miei capi reparto, poi i miei capi clan: mi hanno accolta così come ero, senza la pretesa di plasmarmi ma con la voglia di fare di me non solo una brava persona ma anche una buona cittadina. E questa è una cosa che riempie di gioia me.
Mi hanno accolto con gioia tutte le persone che ho incontrato sul mio cammino, da quelle che ho visto per magari solo qualche uscita a quelle con cui condivido anni di avventure e amicizie.
Accogliere con gioia nell’amicizia e tra pari non è scontato, o quantomeno non è scontata la gioia.
Forse lo dico perché mi è stato inculcato sin da piccola (“il lupetto vive con gioia e lealtà” o “sorridono e cantano anche nelle difficoltà”), ma credo che in realtà sia il modo più autentico con
cui vivere le relazioni, ci piacciano o non ci piacciano.
E così -per tornare da dove sono partita- l’accogliere con gioia è stato un modo per vivere il mio cammino di partenza.
Per chi non lo sapesse o è rimasto indietro, la partenza prevede tre scelte: politica, di servizio e di fede.
Probabilmente sembrano abbastanza scontate, ma anche qui il segreto è stato scegliere accogliendo con gioia quello che sarebbe venuto.
Non nascondo che il cammino verso lo scegliere è stato costellato da dubbi e anche momenti di sconforto, ma adesso mi rendo conto davvero che se si è convinti delle scelte fatte significa che si è accolto il rischio e con gioia si è accettato quello che sarebbe arrivato. Posso umilmente dire che io ho fatto così (certo qualche incertezza l’ho ancora, ma è normale).
Quella che forse mi ha messo più in crisi è stata la scelta di servizio. Ho guardato a Dio per sapere cosa fare, e dal suo esempio ho capito che volere il bene del prossimo è sempre la scelta giusta e che per fare questo nel mio caso dovevo diventare da educanda educatrice.
In questo senso ho accolto con gioia questa sfida, perché nonostante i dubbi credo che la gioia che sapranno darmi i ragazzi sarà quella che mi insegnerà a farli crescere.
Come ho anche concluso la lettera della partenza -e qui sì che la cito!- suggerisco a tutti coloro che non conoscono la gioia dell’accogliere, di credere. Credete in voi stessi e fidatevi di chi vi sta accanto. Solo così potrete diventare prossimo per gli altri, perché sarete in grado di accoglierlo con gioia.
Anna Balossi
Gazzella Loquace

Il reparto è l’esperienza più bella

Credo sia dai lupetti che non scrivo un articolo sul Tuttoscout quindi eccomi qua.  Penso che mi debba ripresentare: sono Alessia Zanella e ora sono un secondo anno del reparto Phoenix.
Il B.P. Day: forse il giorno più atteso da tutti gli scout del mondo. Quest’anno noi del Phoenix lo abbiamo vissuto facendo un pernotto ma oltre a questo torniamo al nostro “giorno preferito.” Beh abbiamo fatto le solite cose: issa messa ammaina. Tra un gioco e l’altro la giornata è finita in veramente poco tempo fra i canti della messa e l’allegria il tempo è volato.
Ma adesso vorrei soffermarmi su un altro argomento: la vita in reparto. Appunto per il fatto che non scrivo dai lupetti vorrei raccontarvi proprio questo. Beh diciamo che mi sono responsabilizzata MOLTO di più. Si instaurano amicizie che resteranno per sempre e che non tradiscono mai. Vige la fratellanza e l’uguaglianza fra tutti ma soprattutto il rispetto reciproco: quindi lupetti che avete paura del reparto state tranquilli perché è un’esperienza indimenticabile e bellissima. Beh ovviamente si imparano molte cose nuove di cui io sinceramente non sapevo manco l’esistenza; termini nuovi attività diverse…
Diciamocelo sinceramente: il reparto è l’esperienza più bella che qualcuno possa intraprendere.

La strada che ho fatto grazie all’accoglienza

Finalmente sono di nuovo qua, a scrivere un articolo per mostrare ancora una volta la bellezza dell’avventura scout.
Questo anno, per me, è un po’ particolare: è l’ultimo che passerò in reparto prima di andare nel noviziato.
Eh già, non sembrano mica essersene andati tanti anni da quando sono arrivata nel 2013 qua da voi. Però in realtà di tempo ne è passato.
Questo è il mio sesto anno agli scout…
Quarto anno in reparto…
Ed è forse un po’ stupido da dire, ma questo anno è stata la prima volta che mi sono detta “Wow, fra poco me ne devo andare!” Eppure mi sembra quasi di non aver concluso il mio cammino e spesso penso “Ma se mi fingessi primina funzionerebbe?” Ovviamente no per svariati motivi, ma poi la vera domanda è: “Perché voglio restare in reparto?”
Molti me l’hanno chiesto e io tante volte non ho saputo rispondere. Ma ora credo di saperlo. È semplicemente che ho paura.
Ma non una paura di quelle che non ti fa dormire e ti tortura ogni notte con incubi e brutti sogni; una paura più “simpatica” e meno spaventosa, paura di qualcosa che sai che deve essere così ma non riesci ad accettarlo, paura… delle novità, possiamo dire, di qualcosa che non conosciamo e non sappiamo se vogliamo conoscere, di rischiare, insomma…
È come quando inizi una nuova scuola… un po’ ti spaventa l’idea di non conoscere molte persone, ma d’altro canto non vedi l’ora di passare del tempo con loro e di vivere insieme delle avventure.
È questa la mia “paura”, diciamo. E ce n’è anche un’altra insita in essa: la paura di non essere capace e di non riuscire a integrarmi. Succede ad alcuni, a volte, nella nuova scuola, di stare in disparte per paura di andare a conoscere gli altri. Ma sapete perché, in realtà, questa paura non mi spaventa così tanto? Perché alla fine, a trarci in salvo da quest’ultimo timore sono gli altri. Esatto, proprio quelle persone che non conosci e con cui hai paura di parlare, proprio quelle persone che osservi da lontano e a cui non ti avvicini, sono proprio loro a trarti in salvo. Come? Accogliendoti, ovviamente!
E pensandoci esiste anche un esempio più concreto di quelli usati fino ad ora. Quando un castorino ha appena compiuto la Grande Nuotata e si trova all’improvviso nel branco secondo me prova le stesse cose; così come anche un cda che passa nel reparto attraversando timoroso quel ponte; ed è la stessa che ho provato anche io quando sono arrivata: la paura di come si starà con quelle nuove persone e magari di non trovarsi a proprio agio; ma allo stesso tempo io ho pensato anche “Wow, eccomi qua! Da coccinella sono arrivata in reparto. Da un certo punto di vista mi sono lasciata alle spalle tutto: le mie amiche, Arcanda, Mamma Scotty, Formica Mi, Scibà; ma sono qua, pronta per ricominciare, conoscere nuovi amici e intraprendere nuove avventure!”
E, in fondo, penso che dovrebbe essere questo il pensiero di ogni persona che passa.
Perché in fondo i passaggi sono sì un nuovo inizio, però fanno tutti parte di un unico percorso, quello di crescita. Si parla di crescita personale, spirituale, di gruppo o individuale. Ma la crescita in sè avviene perché si sa di essere capaci di crescere. Perché se tu non pensi di riuscire a fare qualcosa, allora non ci riuscirai.
Ma vorrei soffermarmi su un argomento: quello dell’accoglienza. Esatto, proprio di quella cosa che ci trae in salvo quando pensiamo di perderci nel mare della paura. Essa arriva dagli altri, però anche noi possiamo accogliere qualcuno, e lo facciamo in prima persona quando conosciamo un nuovo fratellino.
Accogliere significa accettare nel nostro gruppo, ed è proprio quello che succede agli scout.
Ogni anno infatti accogliamo nuovi amici e insieme a loro viviamo dei weekend e dei giorni fantastici! Ogni anno decidiamo di voler bene a nuove persone, di unirle a noi e di integrarle.
Ogni anno accogliamo tante persone e spesso anche noi siamo accolti dagli altri.
Ogni anno dimostriamo di saper accogliere e, in fondo, accogliere fa bene sia al nuovo arrivato che a noi!
Canarino Stravagante
(Carmela Scida)