Archivio mensile:aprile 2019

Branco Tikonderoga – Il giorno della memoria

Accade facilmente a chi ha perso tutto di perdere sé stesso

Primo Levi

Il significato di questa frase è che è facile perdersi d’animo e perdere la ragione di sopravvivere dopo che si è vissuto un periodo dove ti hanno strappato il diritto di avere una vita normale.
Tutto questo è accaduto nei campi di concentramento lontano da tutto e lontano dai tuoi cari. In questi posti le persone venivano maltrattate ed uccise ingiustamente.
Per questo motivo il 27 gennaio viene ricordato il giorno della memoria, perché nessuno dimentichi ciò che è successo. Ci sono molti film e libri sui campi di concentramento in cui si può veramente sentire il dolore delle persone che sono morte.

Sveva Simone, Rosa Lampugnani

Branco Tikonderoga – Le Beatitudini

È sempre lui… Dio!

È sempre lui che mi accompagna in giro, è sempre lui che sorveglia su di me!
Lo so che molti di voi non credono molto, ma vi consiglio di leggerlo comunque.
Non voglio dirvi che dovete assolutamente credere a Dio, ma vi consiglio di pensarci, perché così Lui sa che voi state pensando a Dio e Lui cercherà di “parlarvi”.
A me ha fatto capire che non devo sprecare la mia vita a divertirmi, perché in questi giorni mi stanno parlando delle beatitudini.
Un santo ha detto: “beato chi è nel pianto, perché verrà consolato!”, non so se sia una cosa molto bella, ma Gesù ha detto così!
Un altro santo ha detto: “beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli”. Non sono cose che si dicono in giro, ma sono cose belle.
In tutti voi c’è qualcosa di beato. In poche parole siete tutti beati, sia io che voi.

Elisa

Branco Tikonderoga – Il falco pigro

Un grande re ricevette in omaggio due pulcini di falco e si affrettò a consegnarli al Maestro di Falconeria perché li addestrasse. Dopo qualche mese, il maestro comunicò al re che uno dei due falchi era perfettamente addestrato. «E l’altro?» chiese il re.
«Mi dispiace, sire, ma l’altro falco si comporta stranamente; forse è stato colpito da una malattia rara, che non siamo in grado di curare. Nessuno riesce a smuoverlo dal ramo dell’albero su cui è stato posato il primo giorno. Un inserviente deve arrampicarsi ogni giorno per portargli cibo».
Il re convocò veterinari e guaritori ed esperti di ogni tipo, ma nessuno riuscì a far volare il falco.
Incaricò del compito i membri della corte, i generali, i consiglieri più saggi, ma nessuno poté schiodare il falco dal suo ramo. Dalla finestra del suo appartamento, il monarca poteva vedere il falco immobile sull’albero, giorno e notte.
Un giorno fece proclamare un editto in cui chiedeva ai suoi sudditi un aiuto per il problema. Il mattino seguente, il re spalancò la finestra e, con grande stupore, vide il falco che volava superbamente tra gli alberi del giardino. «Portatemi l’autore di questo miracolo», ordinò.
Poco dopo gli presentarono un giovane contadino. «Tu hai fatto volare il falco? Come hai fatto? Sei un mago, per caso?», gli chiese il re.
Intimidito e felice, il giovane spiegò: «Non è stato difficile, maestà. Io ho
semplicemente tagliato il ramo. Il falco si è reso conto di avere le ali ed ha incominciato a volare».

Talvolta, Dio permette a qualcuno di tagliare il ramo a cui siamo tenacemente attaccati, affinché ci rendiamo conto di avere le ali.
Siamo tutti nati per volare, per sprigionare l’incredibile potenziale che
possediamo come esseri umani. Ma a volte ci sediamo sui nostri comodi rami casalinghi, abbarbicati alle cose che per noi sono familiari. Le possibilità sono infinite, ma per molti di noi, rimangono inesplorate. Ci conformiamo alla familiarità, al comfort e all’ordinario.
Quello che è successo al pennuto di questa bellissima storia è ciò che ci succede quando riusciamo ad allontanarci dalla nostra cosiddetta “zona di comfort”, superando le paure e i limiti che spesso ci tengono bloccati.

Dagli scritti di B.P.: Quando ero giovane c’era in voga una canzone popolare: «Guida la tua canoa» con il ritornello» «Non startene inerte, triste o adirato. Da solo tu devi guidar la tua canoa». Questo era davvero un buon consiglio per la vita… sei tu che stai spingendo con la pagaia la canoa, non stai remando in una barca. La differenza è che nel primo caso tu guardi dinnanzi a te, e vai sempre avanti, mentre nel secondo non puoi guardare dove vai e ti affidi al timone tenuto da altri e perciò puoi cozzare contro qualche scoglio, prima di rendertene conto. Molta gente tenta di remare attraverso la vita in questo modo. Altri ancora preferiscono imbarcarsi passivamente, veleggiando trasportati dal vento della fortuna o dalla corrente del caso: è più facile che remare, ma ugualmente pericoloso. Preferisco uno che guardi innanzi a sé e sappia condurre la sua canoa, cioè si apra da solo la propria strada. Guida tu la tua canoa!
…cos’altro aggiungere… affidarsi e condividere gioie e fatiche!
Buona caccia!

Chil

Branco Albero del Dhak – Lupetti per una sera

04-1   Sabato 10 marzo noi genitori del branco Albero del Dhak ci siamo trasformati in lupetti per una sera, infatti siamo stati accolti in branco, abbiamo imparato alcune regole del branco, siamo stati divisi in sestiglie (ci hanno colorato in faccia con la tempera e abbiamo creato il nostro poster di sestiglia!) e abbiamo giocato, mentre i nostri figli sono diventati adulti, hanno fatto la spesa e hanno apparecchiato e cucinato per noi.
Ci siamo divertiti davvero tanto, e oggi mi chiedevo: perché quando si diventa adulti si smette di giocare? Perché diventare troppo seri, uccidendo il nostro bambino interiore?
Dai, sarebbe bello trovarci non solo per mangiare, bere e parlare, ma anche giocare insieme… ce li hai,
sparviero, palla infuocata… magari la ruggine sparisce!
Grazie a tutti i capi scout dell’Albero del Dhak!

 

Maricela

 

 

 

 

 

 

 

 

 

L’accoglienza non è una pratica di assistenzialismo ma una festa

L’accoglienza è un tema scomodo e molto discusso in questi tempi e l’analisi delle varie parti politiche e sociali spesso risulta essere oltre che parziale insufficiente.
Per comprenderne meglio l’essenza è sufficiente partire da una semplice constatazione. L’accoglienza sta alla radice del nostro essere uomini e donne in questa terra. Fin dalla nascita ognuno di noi è stato accolto dai genitori e come figli abbiamo accolto i nostri genitori nel progetto della nostra vita. Non abbiamo scelto quella mamma e quel papà, eppure li abbiamo accolti e loro hanno accolto noi e tenendoci fra le loro braccia hanno percepito che eravano – molto più e molto altro – rispetto dall’immagine che si erano creati di noi. Accogliere dunque è scoprire l’altro.
Se partiamo da qui comprendiamo subito come ogni momento della nostra vita personale è in realtà caratterizzato dall’accoglienza e pertanto l’accoglienza non è una pratica di assistenzialismo come ce la vogliono vendere opinion leaders e politici (accolgo il povero, l’indifeso, il derelitto, perché ho di più, perché sono più fortunato, perché sono il buono) ma è una cifra che fa parte del nostro essere umani.
L’accoglienza dunque sta alla base delle relazioni che ogni giorno creiamo. Accogliere chi ci assomiglia, che vive nello stesso contesto, che condivide stile e tradizioni simili o uguali alle nostre è facile, talmente facile che lo diamo per scontato, che non ci sembra nemmeno di farlo. Eppure ne siamo esperti.
Oltre ad una scoperta l’accoglienza può esser una provocazione, perché quando accogliamo non è sufficiente fare affidamento al nostro ruolo o alla nostra competenza (figlio – genitore, educando – educatore, caposquadriglia – guida / esploratore…), ma dobbiamo metterci in gioco completamente, con le nostre debolezze e dobbiamo lasciare che anche l’altro ci accolga e accettare anche che l’altro possa decidere di non accoglierci.
Dobbiamo fare i conti con la possibilità che chi troviamo di fronte possa non condividere il nostro pensiero e la nostra cultura. In questo caso non è certo facile ma dobbiamo lasciarci guidare dalla consapevolezza che “Non si cresce solo tra chi ci assomiglia” (cit). Al contrario, maturità e crescita si basano sullo scontro e incontro di idee e pensieri differenti.
Come Scout e come Cristiani mi piace pensare che possiamo anzi che dobbiamo “fare la differenza” anche in questo. Dobbiamo rendere il nostro accogliere un atto di gioia e d’amore.
Basta pensare al modo di accogliere che sperimentiamo fin dal primo giorno in cui arriviamo in Colonia, Branco, Reparto… caratterizzato dalla felicità, espressa con canti e balli, abbracci e risate.
Questo è per me il giusto modo di accogliere. Una grande festa. Come quando nasce un bambino, come ad un matrimonio, come quando rivediamo un parente o un amico dopo tanto tempo, come Gesù che venne accolto a Gerusalemme dalla folla che lo acclama come Re, agitando fronde e rami presi dai campi.

Sara

A.E.: “Farsi piccoli”

“Gesù e i discepoli partirono di là e attraversarono tutta la Galilea”. Queste parole del Vangelo di Marco ci introducono nel viaggio appena intrapreso da Gesù dalla Galilea verso Gerusalemme; un viaggio che più volte l’evangelista ricorderà nei capitoli seguenti.
La scena che ci viene presentata dal Vangelo è semplice: Gesù prende con sé i discepoli e “cammina davanti a loro” – è così del pastore che guida il suo gregge – dirigendosi verso Gerusalemme. Potremmo vedere in questa bella immagine evangelica il ritrovarsi dei cristiani ogni domenica attorno al loro Maestro e Pastore. Lungo la strada, com’è suo solito, Gesù parla con i suoi discepoli. Ma questa volta non appare anzitutto come maestro bensì come l’amico che apre il suo cuore ai suoi amici più intimi.
Sì, Gesù, che non è un eroe freddo e solitario che può fare a meno di tutti, sente invece il bisogno di confidare ai discepoli i pensieri più segreti che agitano in quel momento il suo cuore. E dice loro: “Il figlio dell’uomo sta per essere consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno”. Forse i discepoli ricorderanno queste parole solo al termine del viaggio, a Gerusalemme, quando esse si realizzeranno quasi alla lettera sulla croce. Ora, nessuno comprende. Eppure, le parole sono drammaticamente chiare.
Ma perché i discepoli non le comprendono? La risposta è semplice. Non comprendono quel che Gesù dice perché il loro cuore e la loro mente sono lontani dal cuore e dalla mente del Maestro; le loro ansie sono altre rispetto a quelle di Gesù, e il loro cuore batte per ben diverse preoccupazioni. Come possono capire stando così distanti? Gesù è angustiato per la sua morte, mentre loro sono preoccupati per il posto, per chi di loro è il primo. È un’esperienza che ci è molto familiare: in questo non siamo dissimili da loro, e continuiamo a comportarci come loro. Il seguito del racconto evangelico, potremmo dire, è davvero disarmante. L’evangelista fa supporre che Gesù, durante il cammino, sia restato solo davanti al gruppo dei discepoli, i quali, rimasti appunto indietro senza tener conto delle drammatiche parole confidategli dal Maestro, si sono messi a discutere su chi tra loro dovesse prendere il primo posto. Arrivati in casa a Cafarnao Gesù chiede loro di cosa stessero discutendo lungo la via. Ma “essi tacevano”, nota l’evangelista. Finalmente provavano almeno un po’ di vergogna per quello di cui avevano discusso. E fecero bene. La vergogna è il primo passo della conversione, essa nasce, infatti, dal riconoscersi distanti da Gesù e dal Vangelo. Il peccato è la distanza da Gesù, prima ancora che un gesto cattivo in particolare. E se la vergogna per tale distanza non c’è, dobbiamo preoccuparci. Quando non c’è vergogna del proprio peccato, quando si attutisce la coscienza del male che si compie, quando non si dà il peso al proprio peccato, ci si esclude di fatto dal perdono. E il vero dramma della nostra vita è quando non c’è nessuno che ci chiede, che ci interpella, come fece Gesù con i discepoli: “di cosa stavate discutendo?” Resteremmo prigionieri di noi stessi e delle nostre ben misere sicurezze.
Gesù, guardando con speranza quel piccolo gruppo di discepoli, iniziò a parlare ribaltando completamente le loro concezioni: “Se uno vuol essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servo di tutti”. Anche a Giacomo e Giovanni risponderà nello stesso modo: “Chi vuol essere grande tra di voi sia vostro servitore e chi vuol essere il primo tra voi sia il servo di tutti” (Mc l0, 43-44). Gesù sembra non contestare la ricerca di un primato da parte dei discepoli. Ne rovescia però la concezione: è primo chi serve, non chi comanda. E perché comprendano bene quello che vuol dire, prende un bambino, lo abbraccia e lo mette in mezzo al gruppo dei discepoli, è un centro non è solo fisico, ma di attenzione, di preoccupazione, di cuore.
Quel bambino – vuol dire il Signore ai discepoli – deve stare al centro delle preoccupazioni delle comunità cristiane. E ne spiega immediatamente il motivo: “Chi accoglie uno di questi bambini, accoglie me”. L’affermazione è sconvolgente: nei piccoli, negli indifesi, nei deboli, nei poveri, nei malati, in coloro che la società rifiuta e allontana, è presente Gesù, anzi il Padre stesso. “Farsi piccoli” non significa assumere un atteggiamento umilista e remissivo (spesso questo vuol dire disinteresse, rassegnazione o fuga da responsabilità), bensì accogliere dentro le nostre preoccupazioni e dentro i nostri pensieri (il che non significa trovare sempre soluzioni) tutti i piccoli e gli indifesi. Essi continuano ad essere posti da Gesù stesso al centro di ogni comunità cristiana. Beati noi se li accogliamo e li abbracciamo come fece Gesù con quel bambino.

Qumran2.net

Ringraziamento HOPE Foundation

Prima delle vacanze il nostro Gruppo ha organizzato una cena a favore di HOPE Foundation e del suo progetto per lo sminamento del Sahara Occidentale. A proporci l’iniziativa Ë stata Ilaria Scandroglio, ex scolta del Bustotre che, dopo la Partenza, ha fatto del servizio praticamente la sua professione. Le donazioni raccolte alla Messa degli Auguri che abbiamo celebrato prima di Natale con MASCI e Busto 1 e 5 è stata devoluta per la stessa iniziativa.

hope foundation

Uomini, omuncoli e superuomini

Uomini, omuncoli e superuomini
Buongiorno a tutti cari amici ed amiche e benvenuti ancora una volta su Generazione “X”.
Il tema di questo numero, come vi sarete accorti è la “leadership” ovvero, la capacità di comandare. Il concetto non è difficile da comprendere anzi, è così semplice che probabilmente ognuno di voi ha già in mente un qualche esempio: Forse un genitore che ha dovuto prendere una decisione difficile che poi si è risolta per il meglio, forse un capo squadriglia che ha evitato che voi, a differenza delle altre squadriglie, foste colti di sorpresa dall’acquazzone che si è manifestato durante l’uscita autogestita, o forse una figura irreale, che rappresenta il vostro ideale massimo di comandante: coma capitan America, o Superman.
È così semplice da comprendere che molto spesso le persone non ci pensano troppo intensamente e confondono il “leader”, il comandante responsabile, col “capoccia”: un termine un po’ meno utilizzato che, semplicemente, rappresenta chi impera senza costrutto: si fa come dice lui, senza obiettare e senza che lui debba dare il benché minimo esempio.
Detto così, sembra facile accorgersi dei suoi comportamenti, e di conseguenza intervenire per non seguirlo o addirittura affrontarlo per fargli correggere il proprio comportamento ma, come ci in segna la storia, non sempre è facile guardare sotto la maschera e molti, anzi, evitano esplicitamente di farlo: prende decisioni velocemente e le porta a termine, a che pro lamentarsi?
Come si può fare, quindi, per non cadere in questi tranelli? Beh, per trovare la chiave di volta bisogna rivolgersi verso una terza frangia di persone: coloro che non riescono a vedersi come un “vero leader” come qualcuno in grado di prendere la giusta decisione in ogni situazione o che si creano da soli le soluzioni ottimali, e questo no solo è assolutamente normale, ma è universale.
Tornando ai nostri esempi fittizi a stelle e strisce, sono forse la superforza e lo scudo a rendere Cap. un buon leader? No, è la volontà a prendere decisioni difficili quando nessun altro lo vuole fare ed la tendenza al sacrificio. Superman è un buon comandante perché ha tutti i superpoteri del mondo? Certo che no, è un buon comandante proprio perchè usa solo quella che per lui è una piccola parte ei suoi poteri per aiutare le persone in difficoltà: perché ha ben chiaro cosa è giusto e cosa è sbagliato e vive secondo quel credo.
Come avrete notato, le qualità che rendono tale un buon leader non si ottengono grazie alla nascita o attraverso il talento, ma impegnandosi, giorno per giorno, a riflettere sugli avvenimenti della vita per riuscire a vedere la miglior soluzione possibile, e questo vale per tutti, anche quelli che ora avete davanti a voi come grandi leader sono partiti dalla vostra stessa posizione. Loro ce l’hanno fatta: perché non dovreste riuscirci voi?
Tricheco birbante

Hanno lasciato una traccia- Joël Anglès d’Auriac

Hanno lasciato una traccia- Joël Anglès d’Auriac

“Ecco l’ultimo messaggio del vostro amico Joël. Io muoio sorridendo perché il Signore è con me, e non dimentico che un rover che non è capace di morire non è buono a nulla… Addio, fratelli rover; la mia ultima parola: non lasciate lo scautismo. Addio”.

Joël Anglès d’Auriac, 22 anni, scout di Tolone cristiano militante, inviato al Servizio di Lavoro Obbligatorio in Germania, decapitato a Dresda il 6 dicembre 1944. La sua causa di beatificazione è stata introdotta a Roma.

Joël Yves Marie Anglès d’Auriac pronunciò la sua Promessa Scout il 23 marzo 1941 nel Clan Saint Martin di Toulon. Lo scautismo, a cui era arrivato da grande, fu per lui una magnifica scoperta che affrontò con l’ardore da neofita e con spirito di servizio. Prese la Partenza il 16 maggio 1943. Scrisse in quell’occasione: «Raramente, potrei forse dire mai, ho conosciuto tanta felicità e tanta gioia quasi soprannaturale».

Nel luglio del 1943 fu costretto dai tedeschi a partire per lavorare in Germania, a Tescher-Bodenbach. Qui, subito riunì altri Routiers (così si chiamavano i rovers francesi) e formò una equipe che intitolò a Nostra Signora della Speranza. Era di una dirittura esigente e rigorosa e si dedicò sempre a fare opera di servizio tra i suoi compatrioti.

Fu arrestato il 10 marzo 1944 con l’accusa di attività antitedesca, resistenza al lavoro e riunioni clandestine. Il 20 ottobre fu giudicato per alto tradimento e condannato a morte. L’esecuzione avvenne a Dresda il 9 dicembre 1944.

Joël visse a fondo e con grande entusiasmo i suoi ideali scout che gli avevano permesso di scoprire lo splendore del cristianesimo, la carità e la fraternità. Prima della deportazione, desideroso di partecipare agli altri la propria scoperta, egli andava frequentemente nei giardini pubblici della città a far giocare i ragazzi e a indirizzarli nello scautismo. In Germania, noncurante dei rischi, giocò a fondo per i suoi ideali cristiani e francesi; la sua morte era prevista e accettata. La vigilia della sua esecuzione egli scrisse il suo ultimo messaggio: «lo muoio sorridendo perché il Signore è con me e non dimentico che un Routier se non sa affrontare anche la morte non è buono a nulla. Fratelli Routiers, siate ricompensati della gioia che mi avete donato. Grazie a voi io vado a morire con gioia: il Signore mi è vicino. Non siate tristi e abbiate la certezza che accetto la prova con gioia e la offro per tutti voi. Perdono i responsabili della mia morte».
Joël fu per tutti un esempio di lealtà, di abnegazione e di spirito scout, cristiano e francese. Nel suo Carnet de Route fu ritrovato: “È duro qualche volta rimanere fedele agli ideali della Partenza ma per il momento è il Signore che lotta per me… L’ideale del servizio è male applicato se si brontola durante l’impegno col pretesto che gli altri non fanno nulla”.

Joël ci ha lasciato un grande esempio, tanto più valido oggi in cui è difficile parlare di educazione allo spirito di sacrificio. D’altra parte, Joël conferma quanto è stato più volte ripetuto da Baden-Powell: la felicità è frutto di una buona coscienza e di un impegno di servizio al prossimo.

Comprendere e giustificare

Di recente la discussione dentro e fuori l’AGESCI si è animata per la presa di posizione dell’associazione (o di sue componenti regionali e locali) rispetto al Decreto Sicurezza varato dall’attuale governo. Da chi si è dichiarato solo preoccupato (come la FIS, la Federazione Italiana dello Scoutismo) a chi sembra aver appoggiato atti di “disobbedienza civile” come nel caso di AGESCI Sicilia. Il guazzabuglio di commenti è stato variopinto, poco costruttivo e in realtà breve come quasi tutto ciò che succede sui social. Da un lato c’era chi rinfacciava a noi scout di preoccuparci per gli immigrati e non per “i terremotati” e gli altri italiani che soffrono, quando noi sappiamo benissimo di essere i primi a correre a prestare servizio ovunque la terra tremi o i ponti crollino come nelle periferie e nei quartieri “di frontiera”, mentre chi critica non si è ancora mosso dalla sedia. Dall’altro molti hanno festeggiato il fatto che l’associazione, gravata dal peso di circa 180.000 soci con pensieri e idee comuni per quanto è possibile, ma comunque distinti, abbia compiuto un atto rarissimo: prendere posizione riguardo a qualcosa. Qualcuno avrà contrapposto l’AGESCI “del dire” con quella “del fare” e qualcun altro avrà inneggiato al “fedeli e ribelli!” delle Aquile Randagie. Dopotutto restiamo un’associazione che fa dell’antifascismo un cardine del proprio statuto e dell’aiuto al prossimo lo scopo della propria esistenza, quindi da buone sentinelle e uomini dei boschi restiamo giustamente all’erta ad ogni avvisaglia di libertà violate.

Il punto che vorrei toccare, però, rimane ciò che veramente era scritto in quel comunicato dell’AGESCI Sicilia così foriero di triboli: < [AGESCI Sicilia] comprende le iniziative di “disobbedienza civile” nei confronti di leggi palesemente in contrasto con i principi etici di accoglienza e rispetto… >
La coscienza di un qualsiasi scout dovrebbe essere scossa dal leggere “iniziative di disobbedienza nei confronti di leggi”, poiché la legalità e il rispetto delle regole comuni sono l’asse di colmo della tenda dello scoutismo. Eppure, io approvo e apprezzo quanto scritto in quel comunicato per l’uso della parola “comprende”. Si può comprendere un reato? Oppure un crimine?
Io penso che non solo si possa ma sia un preciso dovere civico, sociale e umano comprendere anche l’azione che non condividiamo. Infatti, comprendere e giustificare sono due cose diverse: non possiamo giustificare senza comprendere, ma non sempre dobbiamo giustificare ciò che comprendiamo. È fondamentale, per essere cittadini attivi, scout attenti e persone giuste, cercare di comprendere cosa porta le persone ad agire in un certo modo. Solo capendo le cause si possono risolvere gli effetti. Quindi, da buoni esploratori e guide, branco in caccia, uomini e donne della Partenza, chiediamoci perché qualcuno voglia disubbidire, ma anche perché qualcuno abbia odio del diverso, paura dello straniero, astio verso chi sta peggio di lui e mille altre domande che possono affliggere le nostre sensibilità e richieste.
Comprendere e basta non risolverà i problemi. Ma è molto difficile risolvere un problema senza averlo compreso e, in particolare, è impossibile risolverlo a lungo termine.
E.G. Geco Coinvolgente